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La nave di Penelope

Apologia dei banchi a rotelle

Dei banchi a rotelle si è detto di tutto. Derubricati come “uno spreco di fondi pubblici”, periodicamente vengono tirati in ballo dai media. Spesso e volentieri per attaccare l’ex ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, che non si stanca di ribadire che nessuna scuola era obbligata a comprarli, che era un’opportunità data agli istituti di scegliere dei banchi monoposto diversi da quelli classici, nel caso avessero voluto sperimentare un tipo di didattica alternativa alle classiche lezioni frontali.

Ora, qui, non voglio entrare nella polemica. Voglio vestire per un giorno i panni dell’avvocato del diavolo e tentare di scrivere un’ “Apologia dei banchi a rotelle”. E come ogni buon avvocato, ho cercato dei testimoni che possano darmi una mano nella linea difensiva. Anche se più che un’ “Apologia dei banchi a rotelle”, quello che ne viene fuori è più un “Cinquanta sfumature di banchi a rotelle”. Ma tant’è.

La ricerca non è stata facile, in tanti hanno risposto: “No, noi non abbiamo banchi con le rotelle, niente arredi nuovi, eravamo già a posto”. Poi ci sono quelli che ammettono che gli studenti li usano in stile “go-kart”. Ma del resto, siamo onesti, anche noi da ragazzini avremmo resistito alla tentazione di lanciarci da un punto all’altro della classe scivolando sulle ruote?

Lo ammette anche Anna, che insegna in un liceo scientifico in Veneto. Ha fatto una supplenza in un’aula con i banchi a rotelle. “Facevano l’autoscontro?”, le chiedo, ricordando come nelle “ore buche”, quando ero al liceo, c’erano momenti ludici o in cui in tanti si rilassavano chiacchierando, anche alzandosi e sgranchendosi le gambe. “Macché erano tutti zitti e immobili e con la testa sui libri, ripassavano per l’ora dopo. A volte mi fanno paura per quanto sono seri”, scherza, anche lei sorpresa. Mi spiega che in queste aule con i banchi a rotelle, oltre alle supplenze, gli studenti vengono portati anche per svolgere tornei, come i giochi di Anacleto (competizioni di fisica).

Perché questi banchi è difficile che vengano usati in tutte le classi. All’istituto professionale alberghiero Carlo Porta di Milano ne hanno un centinaio. Li hanno scelti, al momento di ordinare gli arredi, per metterli nelle aule più piccole e creare così una condizione di maggiore distanziamento tra le sedute, anche in spazi ristretti. “Ci abbiamo provato all’inizio dell’anno ma gli studenti ci hanno chiesto di riavere i loro banchi normali”, spiega la preside Rossana Di Gennaro. Qual è il problema? Soprattutto la qualità. Spiega che sono molto leggeri. “Basta un pavimento leggermente in pendenza e questi partono, bisogna stare con i piedi puntati per tenerli fermi”. Poi si smontano troppo facilmente e la ribaltina è troppo piccola per mettere quello di cui uno studente ha bisogno durante la lezione.

Ma a scuola non si butta via niente quindi, anche se non si è riusciti a utilizzarli per il motivo per cui sono stati ordinati, i banchi non sono stati messi da parte. A scuola, sottolinea Di Gennaro, “bisogna essere creativi”. E così i banchi li usano gli insegnanti di sostegno. Al Carlo Porta sono tanti, nella scuola c’è un’alta presenza di studenti con disabilità. Questi banchi consentono ai professori di muoversi secondo le loro esigenze e rimanere alla giusta distanza dagli studenti per fare il proprio lavoro rispettando le normative anti-covid.

Tra gli utilizzi creativi anche quello della scuola media Nazario Sauro di Milano in occasione della Festa della Liberazione. Un uso coreografico: hanno disposto i banchi a rotelle in cortile per creare un enorme simbolo dalla pace e lo hanno ripreso da un drone. Al di là dell’evento specifico, in questo istituto, le sedute sono utilizzate in aula magna.

In ogni caso, la scelta di diversi istituti, come abbiamo visto, è di usarli solo in alcuni spazi. Non in tutta la scuola. Come mai? Ancora una volta la spiegazione sta nella ribaltina troppo piccola e che non consentirebbe di aprire più libri per volta, come a volte risulta necessario. Me lo spiega il preside del liceo scientifico Volta di Milano, Domenico Squillace, che ha comprato una cinquantina di banchi a rotelle per i laboratori.

Squillace è un ottimo testimone, mi fa notare come si siano costruite troppe polemiche sterili su questi banchi azzoliniani e troppe strumentalizzazioni. È vero, sono leggeri, ma in realtà la qualità non è alta neanche dei nuovi banchi monoposto classici, privi di rotelle, che sono arrivati e si capisce che “non sono destinati a durare a lungo”, mi dice. Non sono più solidi come quelli che eravamo abituati a vedere. Ma poi a ben vedere, anche quelli, sono mai stati adatti alle nostre esigenze?

Mi ricorda anche com’erano i banchi fino a pochi anni fa. Da quelli con il calamaio, sopravvissuti dai tempi dei nostri nonni e che abbiamo fatto in tempo a usare noi, come prima di noi i nostri genitori, senza mai aver visto una penna che necessitasse una boccetta d’inchiostro in cui intingerla. E dal buco nell’angolo del banco, regolarmente cadeva qualche penna, più moderna di quella in piuma d’oca, che poi rotolava da qualche parte e spariva inesorabilmente.

E poi c’è il “sediagate“. Non parlo di quella poltrona che il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha negato alla presidente della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen. Ma di quelle di legno che erano tutte scheggiate e hanno attraversato i decenni e le riforme scolastiche. Quelle che solo guardandole smagliavano le calze, bucando i collant di intere generazioni di studentesse.

E le sedie, come i banchi – con foro per il calamaio o no -, erano tutte di dimensioni diverse. Ed era un continuo incastro e scambio di sedie con i propri compagni per trovare la combinazione che consentisse di sedersi senza che il banco si sollevasse sulle proprie gambe.

Le sedute di questi banchi a rotelle, invece, “sono comode”, assicura il preside che ne ha uno in presidenza. Lui lo utilizza per pranzare, stendendo la sua tovaglietta sulla ribaltina all’ora di pranzo e ha così avuto modo di provarlo. Ma gli altri banchi sono tutti nei laboratori, come da piani.

E li trova molto utili. Consentono di non intasare le aule, creando spazi per muoversi, “e di modificare l’assetto della classe molto rapidamente”. Perfetti quindi per i lavori di gruppo, le attività laboratoriali e tipi di didattica diversi dalle classiche lezioni centrali.

Molto apprezzati, per questo, dai docenti che vogliono sperimentare altri metodi. Mi viene ribadito anche da una docente di lettere del liceo classico Beccaria di Milano, in cui questi banchi non sono presenti perché il parco arredi era già stato rinnovato prima della pandemia. Ma mi ricorda come i banchi a rotelle, presenti da tanto tempo nelle scuole del Nord Europa, prima di diventare il simbolo della ministra Azzolina, sono sempre stati ammirati. Strumenti, ricorda, presentati anche alla fiera italiana dell’innovazione scolastica per eccellenza, Didacta, e che consentono di modificare la disposizione delle sedute nell’aula per le esigenze di metodi didattici innovativi.

Veniamo ora all’arringa finale. Partiamo dal dato di fatto. Ora i banchi a rotelle ci sono. Possono essere utilizzati in diversi modi. Abbiamo visto qualche esempio creativo e quello, invece, per cui sono stati pensati. Come ad esempio l’utilizzo didattico per i laboratori. Sono versatili. Non saranno perfetti ma lo erano quelli con i calamai, le sedie scomode e gli altri arredi scombinati di qualche decennio fa? Ci siamo forse messi a demonizzarli all’epoca? E allora diamo una chance ai banchi a rotelle, proviamo a guardarne le potenzialità e a sfruttarle con la creatività di cui solo la scuola è capace.

  • Claudia Zanella

    Sono nata a Milano nel 1987. Ma è più il tempo che ho passato in viaggio, che all’ombra della Madonnina. Sono laureata in Filosofia e ho sempre una citazione di Nietzsche nel taschino. Mi piacciono tante cose ma, se devo scegliere tra le mie passioni quali sono quelle che più parlano di me, direi: la Spagna, il rock e il giornalismo. Dopo averci vissuto, Madrid è la mia città d’elezione; il rock scandisce il mio ritmo di vita e venero le mie chitarre come oggetti magici; infine, fare la giornalista soddisfa il mio impulso alla Jessica Fletcher di voler sempre vedere chiaro e poi raccontare. Ho lavorato per cinque anni per La Repubblica, come cronista e responsabile del settore “Educazione e scuola” a Milano. Cofondatrice del progetto di storytelling su Milano ai tempi del coronavirus: “Orange is the new Milano”. Sono approdata a Radio Popolare nel 2019, occupandomi di un po’ di tutto, ma mantenendo sempre un occhio vigile sul mondo della scuola.

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Breaking Dad

Tutta nostra la città

Il fatto è che si sta tanto nel proprio quartiere. Casa, scuola, parchetto. Campo di calcio, parchetto, casa. Spesa, scuola, eccetera. Lo confesso, io nei miei vari quartieri, fosse Verona, la mia città, fosse Trento, dove ho studiato, o altri posti, mi ci sono sempre trovato bene. Mi piace quel senso di consuetudine rassicurante.

Mi piace incontrare qualcuno che conosco. Però, dai, mi sono reso conto con gli anni che così si rischia di fare un po’ come Truman: “caso mai non vi vedessi buon pomeriggio, buona sera e buona notte”. E quindi mi sono preso un po’ a calci. Figuriamoci da quando – e ormai sono un bel po’ di anni – vivo a Milano. Una babele di zone, quartieri, borghi: soprattutto agli occhi di un provinciale, tanta roba.

E insomma, ragazzi. Bisogna che andiamo un po’ in giro per la città.

– Ma a fare cosa, papà?

-Eh, a vedere, a esplorare.

-Ma non siamo mica in vacanza, non siamo mica turisti…

-Al parchetto almeno ci sono i miei amici…

Le sensate obiezioni dei ragazzi cadono grazie a una serie tv.

Si intitola Zero ed è ambientata alla Barona, storico quartiere popolare alla periferia ovest di Milano. C’è un ragazzino, Omar, italiano di seconda generazione di origini senegalesi, che si destreggia per le strade, tra bulli, piccola criminalità e il superpotere di diventare invisibile. Con gli amici, tra l’altro, deve difendere il suo quartiere dalla speculazione edilizia che minaccia il Barrio, il luogo di ritrovo e di vita della compagnia.

– Papà, ma la Barona esiste davvero?

– In che senso, Fabri?

-La Barona, dove c’è il Barrio, quello della serie, esiste?

-Certo che esiste…

Domenica mattina. Si parte.

Il giro, oltre alla Barona, comprende un’altra location tratta sempre dalla serie tv. Caso vuole che una protagonista, che fa un po’ da contraltare urbano, viva in zona Garibaldi, a ridosso di piazza Gae Aulenti e del celeberrimo Bosco Verticale. Seconda tappa.

Poi, quando siamo già sulla porta, si inserisce una variabile non prevista.

– Possiamo comprare un manga?

-Bè, si va bene. Dov’è il negozio di fumetti?

-Sui Navigli.

-Personaggi della serie, lì, ne abbiamo?

-No, solo il negozio di fumetti.

-Ok, terza tappa.

Mi viene in mente una canzone di Lucio Battisti che fa: “… chiedere gli opuscoli turistici della mia città/e con te passare il giorno a visitar musei…

Va bè, noi visiteremo quartieri e fumettoteche. Ma il senso del buon Lucio (e del buon Mogol) è quello: passeggiare come visitatori nella propria città dà una sensazione di leggerezza, di allegria, non so perché. Come aprire un cassetto che hai davanti tutti i santi giorni e – pensa te – ci trovi dentro un libro di poesie o una biglia di vetro colorato o cinque euro.

Fotografie dal tour.

Barona 1: uomo di mezza età con cappello da cowboy e sigaretta tra le labbra seduto su un bidone della spazzatura. (Fabrizio: “Figo!”)

Barona 2: scritta sul muro: “Salvini m.” (Francesco: “Figo!”)

Barona 3: il Barrio, i murales, splendidi. La balena azzurra, Angela Davis, le Donne Partigiane, una scimmia, un tipo mostruoso. Colori. (Fabri e Franci, all’unisono: “Fighissimo!!!”, seguono selfie)

Barona 4: i palazzoni. (“Ecco, Zero abita lì, ma posso chiamarlo urlando?” “Boh, prova…” “No, vabè, fa niente”)

Gae Aulenti 1: l’acqua della fontana a raso (Fabri: “Si può entrarci?”)

Gae Aulenti 2: i grattacieli (Franci: “Come fanno a pulire i vetri?”)

Gae Aulenti 3: il giardini, le panchine fatte a sdraio, le erbe aromatiche. (Fabri: “A me piaceva di più la Barona”)

Gae Aulenti 4: Bosco Verticale, foto da sotto in su. (Franci: “Ma come funziona il sistema di irrigazione?”)

Dell’ultima tappa, quella nel negozio di fumetti del Naviglio non ci sono foto. Troppa gente, dentro. Meglio fare in fretta. Sigilliamo le mascherine e al volo portiamo alla cassa due manga Devil Man e due Scottecs Toons.

A casa ritroviamo la torta per la merenda e il consueto panorama dalla finestra. Più una biglia di vetro colorato sul fondo del cassetto.

  • Alessandro Principe

    Mi chiamo Alessandro. E, fin qui, nulla di strano. Già “Principe”, mi ha attirato centinaia di battutine, anche di perfetti sconosciuti. Faccio il giornalista, il chitarrista, il cuoco, lo scrittore, l’alpinista, il maratoneta, il biografo di Paul McCartney, il manager di Vasco Rossi e, mi pare, qualcos’altro. Cioè, in realtà faccio solo il giornalista, per davvero. Il resto più che altro è un’aspirazione. Si, bè, due libri li ho pubblicati sul serio, qualche corsetta la faccio. Ma Paul non mi risponde al telefono, lo devo ammettere. Ah, ci sarebbe anche un’altra cosa, quella sì. Ci sono due bambini che ogni giorno mi fanno dannare e divertire. Ecco, faccio il loro papà.

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Piovono Rane

La vera battaglia dietro la legge Zan

Ci sono tante questioni che porta con sé  la legge Zan, alcune delle quali complesse, certo.

Ma dietro il dibattito di questi giorni c’è soprattutto una questione culturale molto semplice che ha a che fare con il linguaggio come strumento di discriminazione.

Il linguaggio, si sa,  non è una cosa diversa dal ragionamento. Il linguaggio è il ragionamento, è  logos – cioè appunto parola, discorso e ragionamento.

Se a uno che non vuole pagare il conto dico “sei proprio un ebreo” non sto emettendo fonemi neutri, sto commettendo un’azione di discriminazione.

E lo stesso vale per le tante parole oggi rivendicate in un’ondata di esaltazione intestinale  del politicamente scorretto.

Parole come frocio, mongoloide o tranvone alzano il tasso di discriminazione e abbassano il tasso di civiltà. Inquinano l’aria che respiriamo tutti. Soprattutto se vengono sdoganate sui media, sui titoloni dei giornali fasciotrash che poi tracimano nelle rassegne stampa in tv.

Sia chiaro: la legge Zan non punisce chi usa questi termini, non c’è alcuna limitazione nemmeno all’uso peggiore della libertà d’espressione.  Punisce solo l’istigazione.  Ma il bivio che abbiamo davanti non è soltanto legislativo, è anche culturale.  

Dobbiamo un po’ decidere, come società, che tipo di paese vogliamo essere, che aria vogliamo respirare e far respirare alla generazione futura.

  • Alessandro Gilioli

    Nato a Milano nel 1962, laureato in Filosofia alla Statale. Giornalista dai primi anni 80, ho iniziato a Rp da ragazzo poi ho girato per diversi decenni tra quotidiani, settimanali e mensili. Ho scritto alcuni libri di politica, reportage e condizioni di lavoro, per gli editori più diversi. Tornato felicemente a Radio Popolare dall'inizio del 2021.

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Vista da qui

Per un racconto a più voci

“Vista da qui” sarà uno spazio di riflessione aperta e posizionata. Aperta perché è una chiamata al ragionamento collettivo, proprio delle nostre discipline di provenienza. Posizionata perché dipende dalla nostra prospettiva geografica, politica, esistenziale.

Scriveremo da Napoli (Pietro) e da Catania (Emilio), con gli strumenti delle scienze sociali e con il nostro bagaglio misto di ricerca e di attivismo. Ed è da qui, da due città, due città del Sud, che questo blog vuole partire.

Scegliere di venire ad abitare in Sud Italia è stata per entrambi una svolta culturale. L’immaginario sul Sud costituisce un incredibile guazzabuglio di luoghi comuni: un luogo che non cambia; una zona sottosviluppata; un popolo fannullone; un paradiso turistico ma un inferno sociale. Tutti questi stereotipi si sbriciolano al primo incontro reale. Allora, queste semplificazioni possono essere prese e ribaltate, decostruite e risignificate in una pratica che restituisce complessità a questa terra così eterogenea e diversa.

Noi, con questo blog, scegliamo di fare un viaggio in territori a noi per lo più ignoti. Cercheremo di guardare con occhi nuovi, di conservare quella curiosità onesta che permette di uscire da letture pre-confezionate. Tenteremo di restituire profondità e complessità ad una terra tanto vasta e plurale, abbandonando da subito la pretesa di raccontare il Sud con la S maiuscola. Ci prefiggiamo un compito minore, più lento e circoscritto, ossia quello di andare oltre le grandi astrazioni per riappropriarci invece di un sud plurale e incoerente. Per fare ciò, ripartiremo da sguardi, frammenti e biografie, con un metodo: la coralità.

Questo blog, allora, sarà scritto a quattro mani ma non conterrà solo due voci: si avvarrà delle storie, delle esperienze e dei vissuti delle persone che incontreremo. Infatti, (ri)trovarsi a Sud vuol dire anche e soprattutto confrontarsi e anche scontrarsi con simboli, tradizioni, valori, riti poco o mal conosciuti. Diventa necessario allora che la riflessione si faccia collettiva per provare ad intercettare le realtà e i racconti che ci restituiscono un pezzo di sud, la pluralità dei suoi volti, le sue mille sfaccettature. Per provare a capire l’Italia e il Mediterraneo con lo strumento dell’inchiesta sociale, attraverso l’esperienza sul campo, in rapporto con le pratiche locali.

Allora, la marginalizzazione che avviene tanto nel tessuto urbano quanto nelle campagne italiane o in mezzo al mare, nonché le mobilitazioni e le lotte con cui i soggetti marginalizzati si spingono oltre i confini del consentito, saranno al centro dell’indagine. Perchè posare lo sguardo sul sud vuole dire anche fare una scelta di campo, una scelta politica. Raccontare i sud italiani oggi – nonché le linee che lo attraversano – vuol dire avventurarsi nella crisi sociale, economica e climatica del neoliberismo; e vuol dire farlo a partire dalle storie di chi spesso è considerato «troppo lento, fuori tempo, fuori, forse pure fuorilegge», come direbbe Eugenio Bennato, cantore del Sud, del Mediterraneo, voce di una storia spesso esclusa dalla modernità – che merita di essere raccontata.

  • Emilio Caja e Pietro Savastio

    Emilio Caja e Pietro Savastio sono ricercatori indipendenti e collaborano con varie riviste, enti di ricerca e università. Sono stati e continuano ad essere partecipi di diverse esperienze di attivismo politico e sociale. Emilio lavora all'università e ha un piede sotto l’Etna, Pietro lavora nella scuola e ha due piedi sotto il Vesuvio: “da qui” è la prospettiva del Sud da cui guardano al mondo, dopo essere stati a spasso per l’Europa del Nord a studiare e formarsi.

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Il tè nel deserto

Se al virus sopravvivono solo i ragazzini

Stavo guardando qualche episodio di Anna, la serie tv scritta e diretta da Niccolò Ammaniti, tratta dal suo romanzo omonimo del 2015 e mi sono chiesta quanto fosse casuale l’uscita in questo periodo storico. Infatti presumo che non lo sia per niente, anche se l’autore presentandola, non ha fatto molti riferimenti alla pandemia che stiamo vivendo. Il romanzo è ambientato in Sicilia nel 2020 e si svolge in un contesto post pandemico. Cioè, poco tempo prima un virus ha ucciso tutti gli adulti, risparmiando i bambini che si trovano orfani e devono arrangiarsi per sopravvivere.

<<Questa storia nasce da un pensiero puramente biologico comportamentale: cosa farebbero dei bambini abbandonati a loro stessi? Da qui sono partito a ipotizzare che per qualche ragione nel mondo siano scomparsi gli adulti>>.

L’obiettivo di questa storia, come ha spiegato Ammaniti, erano i ragazzini e le ragazzine in un mondo senza adulti e il virus chiamato la Rossa, che si espande in tutto il mondo aggredendo i polmoni e togliendo l’aria, era soltanto un pretesto per sterminare letterariamente tutte le altre generazioni. All’inizio di ogni episodio viene precisato che la serie è stata girata nel 2019, prima dell’arrivo del Coronavirus. Detto questo, le coincidenze sono inquietanti. Molto inquietanti.

Ma come detto, tolte le analogie che hanno visto sparire nell’ultimo anno una generazione di anziani e adulti, l’anno in cui questo sarebbe accaduto e le modalità di come il virus avrebbe aggredito rapidamente i contagiati, tutto il resto si muove in un contesto tra il fantasy e la fantascienza. Con scenari apocalittici, che spesso il cinema ha mostrato quando si tratta di day after, con l’accumulo di generi primari, volti sporchi, fame, debolezza e ricerca spasmodica di un luogo per ripararsi.

Nella serie Anna c’è tutto questo, ma c’è anche l’interessante ipotesi di un mondo in mano ai più piccoli, c’è un contesto che richiama anche una favola dell’orrore, ci sono delle luci calde che si fondono con delle luci freddissime. C’è uno sguardo analitico che cerca di esplorare i pensieri e i sentimenti più profondi, restituendo allo spettatore la stesso tipo di riflessione.

Qualche mese fa leggevo che Contagion è stato uno dei film più scaricati nell’ultimo anno. Nel 2011 il regista Steven Soderbergh si inventava una storia che parlava della diffusione di un virus trasmesso da goccioline respiratorie, di una pandemia che sovvertiva l’ordine sociale e della ricerca di un vaccino. Questo virus partiva da Hong Kong, da lì arrivava negli USA il paziente zero che diede inizio al contagio irrefrenabile. Per questo film, interpretato tra gli altri da Matt Damon, Marion Cotillard, Jude Law, Gwyneth Paltrow, Soderbergh si era consultato con alcuni medici dell’organizzazione Mondiale della Sanità, prendendo ispirazione dall’epidemia di SARS cominciata nel 2002.

Ma questa è solo finzione, nella realtà invece vediamo altro.
Oppure no…

 

 

  • Barbara Sorrentini

    Laureata in filosofia, giornalista, conduttrice e autrice a Radio Popolare. Dal 2002 cura e conduce la trasmissione “Chassis” e per qualche anno ha realizzato “Vogliamo anche le rose”, dedicata ai documentari. Per Radio Popolare ha condotto i diversi contenitori culturali e tuttora realizza servizi e interviste per trasmissioni e Gr. Tra le ultime trasmissioni “A casa con voi” e “Fino alle 8” con la rassegna stampa del mattino. È stata direttrice artistica del Festival dei beni confiscati alle mafie. Ha collaborato con La Repubblica, E-Il Mensile, Pagina 99, blogger per MicroMega, Cineforum Web, Cinecittà News, 8 1/2. È tra i curatori del libro Entretiens- Nanni Moretti, edito dai Cahiers du Cinéma, ed è tra gli autori della Guida ai film per ragazzi (Il Castoro). È stata consulente dell’Assessorato alla Cultura di Milano (2012-2013).

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    Poveri ma belli di mercoledì 12/11/2025

    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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    "L’identità e il suo significato" nel nuovo album di Billie Marten

    "È un disco che parla dell'identità e del suo significato. Di quando scopriamo la nostra vera identità e di come, in realtà, una vera identità non esista: siamo in continuo cambiamento", ha raccontato Billie Marten ai microfoni di Volume. Per questo lavoro Billie Marten si è trasferita per qualche mese a Brooklyn, avendo voglia di registrare con nuovi musicisti, scoprendo nuovi lati della sua musica. Tornata in America per il tour, è rimasta molto colpita: "È stato scioccante vedere quanto l'America sia cambiata in così poco tempo. Ho visto un arresto dell'ICE in un parcheggio proprio davanti a me. Posso garantire che nei prossimi anni usciranno un sacco di album su tutto questo". L'intervista di Niccolò Vecchia a Billie Marten.

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    Vieni con me è una grande panchina sociale. Ci si siedono coloro che amano il rammendo creativo o chi si rilassa facendo giardinaggio. Quelli che ballano lo swing, i giocatori di burraco e chi va a funghi. Poi i concerti, i talk impegnati e quelli più garruli. Uno spazio radiofonico per incontrarsi nella vita. Vuoi segnalare un evento, un’iniziativa o raccontare una storia? Scrivi a vieniconme@radiopopolare.it o chiama in diretta allo 02 33 001 001 Dal lunedi al venerdì, dalle 16.00 alle 17.00 Conduzione, Giulia Strippoli Redazione, Giulia Strippoli e Claudio Agostoni La sigla di Vieni con Me è "Caosmosi" di Addict Ameba

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