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Appunti sulla mondialità

Demografia, la potenza nei numeri

Il controllo demografico esercitato negli ultimi decenni dalla Cina ha dato i risultati attesi. Il tasso annuale di crescita demografica  è sceso dall’1,55% del 1989 allo 0,35% stimato per il 2019 dalla Banca Mondiale. Secondo le indiscrezioni sui dati dell’ultimo censimento, ancora non ufficialmente comunicati da Pechino, la popolazione totale sarebbe addirittura già in calo, attestandosi in ogni caso sotto la soglia del miliardo e 400 milioni. I numeri assoluti rimangono impressionanti, ma la situazione potrebbe avere come conseguenza la moltiplicazione di problemi già noti da noi. Primo fra tutti, l’invecchiamento della popolazione, con un’età media che aumenta: nel 2022 il 15% dei cinesi avrà più di 65 anni. Mentre l’India è ormai vicinissima al pareggio con la Cina, e la popolazione degli Stati Uniti continua a crescere (+0,5%), in Cina le autorità si interrogano sulla liberalizzazione delle nascite, anche se ancora non ci sono stati ripensamenti ufficiali e si è fermi ai due figli per coppia. I loro timori riguardano il confronto con gli Stati Uniti, Paese considerato a tutti gli effetti l’unico competitor. Nei prossimi 30 anni gli USA aumenteranno la loro popolazione e la disponibilità di manodopera, a differenza di quanto si prevede per la Cina.

Se c’è un legame tra demografia e sviluppo economico, è sicuramente quello che riguarda le dimensioni dei mercati interni. Il mercato USA dovrebbe crescere fino a uguagliare quello della declinante Europa comunitaria, mentre quello cinese resta sì il più grande al mondo dal punto di vista numerico, ma non è certo paragonabile a quello statunitense per capacità di consumi dei cittadini. Perciò la grande sfida cinese è la conquista di altri mercati, come quelli africani, asiatici e latinoamericani. Cioè allargare, come nei fatti già succede con molti Paesi, il proprio mercato interno soddisfacendo ogni bisogno di manufatti (e acquistando tutte le materie prime) di altri Stati. Ma quelli che Pechino sta conquistando restano pur sempre mercati poveri, rispetto ad esempio a quello europeo che, per quanto abbia ormai forti legami anche con la Cina, resta ancorato soprattutto ai rapporti con il Nordamerica. E qui si torna all’attualità politica e geopolitica della demografia. Che, allargando lo sguardo, racconta di un’esplosione di natalità attesa in Africa nei prossimi anni, ma anche dei calcoli che la politica israeliana sta facendo con la prospettiva di una crescita sostenuta della popolazione palestinese e arabo israeliana da un lato, e di quella ebrea ultra-ortodossa dall’altro. Negli Stati Uniti la crescita demografica dei cosiddetti latinos è inarrestabile: incideranno sempre più sulla cultura e sul futuro del Paese. In Europa, le proiezioni demografiche confermano solidamente la prospettiva della società multietnica.

È questo il ruolo della scienza che studia i fenomeni che si riferiscono alla popolazione fin dal XVII secolo: fornire i numeri, quelli reali. Poi c’è la politica, che con la demografia ha un rapporto bipolare. Spesso la ignora o addirittura ne falsa i dati per fare propaganda, a volte la utilizza per programmare politiche di ampio respiro. Un vero statista, figura di politico ormai rarissima, cui si richiede uno sguardo lungo per governare, non può pensare di fare a meno della demografia. Per un demagogo vale il contrario, ma i numeri restano sempre lì: neutri e precisi anticipano il futuro, avvertendo tutti su ciò che potrebbe succedere se non cambiano i fattori. Dopo decenni di politiche ultra-rigoriste in materia demografica, ora la Cina ha bisogno di nuove nascite. I principali Paesi africani, come la Nigeria, sono informati dal boom demografico in arrivo e sono consapevoli della mancanza cronica di servizi e di posti di lavoro, ma non fanno nulla. Si può ignorare la demografia finché la realtà presenta il conto, oppure si possono usare le proiezioni demografiche per fare politiche che governino il cambiamento: sono scelte, e sono sempre meno i politici disposti ad assumersene la responsabilità.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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La scuola non serve a nulla

Lo schermo è bello quando dura poco

"A modest proposal"

Riaprono le scuole e i teatri: era ora, perché didattica a distanza e streaming ci hanno spremuto le meningi a inventarci modi nuovi di insegnare e recitare; ma a ‘na certa, rischio calcolato o no, “lo schermo è bello quando dura poco”. Si torna in presenza: vivi davanti gente viva.

Sono indi felice di comunicare che un mio spettacolo, lo stesso che battezza il Blog “La scuola non serve a nulla”, andrà in scena al Teatro della Cooperativa di Milano dal 21 al 30 maggio, però aggiornato in versione 2.0: “La Scuola non serve a nulla 2.0: dalla Buona Scuola alla Dad”, giusto per non passare per quello che negli ultimi quindici mesi è stato su Marte. Al pubblico distanziato in sala racconterò di come Leopardi avrebbe usato Tik-tok, ma anche della distanza di un metro tra le rime buccali degli alunni in aula. Anzi, per far meglio sperimentare tutto ciò al pubblico, anche gli spettatori saranno seduti su poltrone a rotelle.

Intanto, l’occupazione del Piccolo Teatro dei Lavoratori dello Spettacolo ha portato alla stesura di una proposta di legge per una radicale riforma nel settore, anche per venire incontro ai tanti problemi economici della categoria già in epoca pre-Covid (nel caso potrete firmare qui su Change.org). Insomma, il più è fatto: ora sarà sufficiente che Fedez legga il testo della proposta sul palco d’un concerto in TV o Pio&Amedeo parlino male di Strehler su Canale 5 in prima serata.

A scuola invece molto scalpore suscita la proposta di tenerle aperte anche a giugno-luglio per insegnare ai ragazzi ciò che non sono riusciti a/non hanno voluto imparare durante l’anno. È un’idea che i più raffinati pedagogisti apprezzerebbero: la Montessori, ad esempio, quando annotava “Il bambino impara quando sbaglia e quando suda”, sottolineando la positiva correlazione tra afa e apprendimento; o Don Milani che affermava “Con sto caldo c’è da sveni’ a lavora’ i campi: meglio sta all’ombra a leggersi ‘uarcosa”. Oppure S. L. Vygotskij: “Poichè lo sviluppo del linguaggio procede cognitivamente dalla fase di comunicazione interpsichica a quella di riflessione intrapsichica, cosa c’è di meglio, se non avviare i virgulti a imparare a bestemmiare interiormente, mentre sono inchiodati in aule a 50 gradi e lo sciabordio del mare ricorda loro quanto folli possano essere al Ministero dell’Istruzione?”

Tuttavia, le parole dei maestri della pedagogia non hanno convinto presidi e docenti. Tre gli argomenti: l’estate è il tempo della sedimentazione non dell’accumulazione; l’estate è il tempo del pensiero e non dell’azione; e l’estate è fatta per stare in ferie, eccheccazzo! Difficile dar loro torto, specie dopo un anno in cui tra meningi e coglioni, non saprei dire cos’è stato maggiormente spremuto. Tant’è che al Ministero sembrano intuirlo: e infatti, nella circolare ministeriale “Piano scuola estate 2021”, mentre pochissimo si è fatto per ridisegnare l’organizzazione degli spazi, l’edilizia scolastica e il numero di alunni per classe, sembrano non saper come fare per indorar la pillola e presentar tutto ciò come “la vera ripartenza”. Non solo “…un ponte per un nuovo inizio!” , si legge gagliardo nel titolo, ma addirittura si arriva, in un documento ministeriale, a citare spavaldi John Lennon: “l’apprendimento non consegue necessariamente da un insegnamento formale. Per intenderci, potremmo utilizzare un famoso verso di John Lennon: “la vita è ciò che ci accade mentre facciamo altro”. Yeah! Mancano solo “L’apprendimento è vita più della vita stessa” (Estimegisto di Prociona), “Si può dare di più” (Morandi-Tozzi-Ruggeri) e “Two gust is meil che uan” (S. Accorsi).

“Scuola estiva”, semanticamente, è una contraddizione in termini, un ossimoro secondo solo a quello coniato dal mio amico Enrico Veronica,  cioè “Bidella settentrionale”. Tuttavia, un buon modo perché tutto si trasformi da un’idea del menga a una mega-idea, è quella di saldare le due emergenze: da un lato quella lavorativo-salariale di attori e formatori teatrali, il cui lavoro sui palchi e nelle scuole è stato fermo per un anno con ristori ridicoli; e dall’altra quella socio-relazionale dei ragazzi, monadizzati dalla Dad in uno scenario di rapporti umani ormai in macerie.

Sì, perché se c’è da imparare un nuovo ABC del guardarsi negli occhi, far diventare i balbettii discorsi, abbattere le dighe che impediscono il libero fluire delle emozioni; allora, se il Teatro è proprio “l’arte della relazione”, chi meglio dell’attore o formatore teatrale può essere il “restauratore di un quadro di socialità giovanile danneggiata”? Tra l’altro questo progetto, nel punto “Realizzazione di percorsi educativi volti al potenziamento delle competenze e per l’aggregazione” consente alle scuole di reperire competenze creative anche da soggetti esterni. Quindi perché non cogliere tre piccioni con una sola fava: docenti a dare continuità ad una tradizione di fancazzismo balneare, attori un po’ meno in difficoltà economica, e studenti un po’ meno asfaltati dalla noia? Sì, lo so che la scadenza del bando il 21 maggio è proibitiva, ma proviamoci.

A proposito di 21 maggio: il blog, causa spettacolo che ri-debutta proprio quel giorno lì, si ferma per un mesetto. Cioè, non è che si ferma del tutto: è che dopo la “Trilogia della Clausura”, si cambia argomento. Proporrò la “Tetralogia del Sessismo linguistico alle Scuole Medie”, cioè il resoconto, già scritto, di una ricerca-azione svolta nella mia classe e spalmata negli interventi delle prossime quattro settimane. Su cosa? Appunto, su ciò che di linguaggio di genere, schwa, direttore/direttrice, plurale maschile sovraesteso ecc. può arrivare in una classe di una Scuola Secondaria di I° Grado. Sarò quindi meno sul pezzo rispetto all’attualità, ma a ben vedere forse quello è un problema che ho sempre.

Per il resto, siccome gliel’ho promesso: lo spettacolo “La scuola non serve a nulla 2.0” l’ho scritto con Carlo Turati che, a sua volta ha pubblicato un romanzo. E se il romanzo non vende, lui mi fa pagare i testi: sicché il titolo è “La carezza della mantide” e se avete dei figli/e vale la pena di leggerlo (sì, sarebbe più per papà che per mamme, e quindi non è un suggerimento per un regalo… ma who cares?). A posto così, Carlo? Che altro aggiungere? Dal 21 maggio vi aspetto a teatro. Dal vivo.

  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

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Bad Input

Informarsi su Internet è facile? Mica tanto…

Il web è veloce, ricco di fonti, facilmente accessibile. Basta per garantire una buona informazione? No. Di seguito un piccolo caso pratico che lo spiega bene.

Questa mattina mi trovo sotto il naso questo articolo: https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2021/05/07/gerusalemme-violenti-scontri-su-spianata-moschee-feriti_648efe02-105e-4030-aba8-bdf72820d2a0.html

Lo leggo. Lo rileggo. Non capisco. Non sono un esperto di Palestina, ma c’è qualcosa che non mi torna. Davvero sulla spianata delle moschee c’erano dei palestinesi che hanno “usato armi da fuoco” contro la polizia israeliana? E davvero la polizia ha risposto solo con proiettili di gomma e granate assordanti?

Mi spiego meglio: si è trattato di un riot spontaneo o di un attacco pianificato contro la polizia israeliana? Non è proprio la stessa cosa…

Passo a fonti estere. Il Jerusalem Post non parla di armi da fuoco e nemmeno Associated Press. Dalle loro cronache sembra che i fedeli in preghiera abbiano solo lanciato sassi, sedie e oggetti vari. L’unico elemento che può far venire qualche dubbio è che alcune testate estere parlano di un lancio di fuochi d’artificio. Possibile che qualcuno abbia tradotto “fireworks” con “armi da fuoco”?

Cerco un’altra fonte. E trovo questo: https://www.repubblica.it/esteri/2021/05/08/news/gerusalemme_oltre_180_feriti_negli_scontri_sulla_spianata_delle_moschee_tra_palestinesi_e_polizia_israeliana-299904510/

È una conferma? No. È solo la stessa agenzia (il testo è identico) su una testata diversa. Sul web capita spesso. Troppo spesso. Al punto che mi viene un dubbio.

Copio la porzione di testo incriminata e la uso come chiave di ricerca in Google. Trovo lo stesso testo, oltre che su ANSA e Repubblica, su Avvenire; SkyTG24; La Stampa e Il Secolo XIX. In tutti gli articoli il paragrafo è identico.

Chiamo in radio per chiedere se ci sono agenzie che riportino la notizia parlando dell’uso di “armi da fuoco” alla spianata delle moschee. Nulla.

A questo punto diventa una questione di principio. Nemmeno Deutsche Welle dice nulla del genere. Ma riporta episodi dei giorni precedenti.  Allargo la ricerca e finalmente trovo una notizia su Al Jazeera. Sì, c’è stato uno scontro a fuoco tra palestinesi e israeliani. Il giorno prima. A Jenin, 100 km a nord di Gerusalemme.

È passata un’ora. Mi arrendo. Non saprò mai se la notizia sia vera, se si tratti di un errore di traduzione o di una distorsione dovuta a un mix tra più notizie relative a episodi differenti.

Una cosa è certa: informarsi (davvero) su Internet non è poi così facile.

  • Marco Schiaffino

    Dopo una (breve) esperienza come avvocato, nel lontano 2000 mi sono trovato quasi per caso a scrivere di Internet e nuove tecnologie, quando il Web e il digitale erano una specie di hobby per smanettoni e appassionati di fantascienza. Mentre continuavo a scrivere per la mia banda di nerd, mi dannavo per trovare il modo di passare a quello che pensavo fosse un giornalismo “più serio”. Qualche volta ce l’ho anche fatta. Poi è successa una cosa strana: quello di cui mi occupavo da anni, ha cominciato a interessare tutti. Ho smesso di dannarmi.

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Piovono Rane

Quest’Europa che arranca dietro Biden

Quello in corso in questi giorni in Portogallo non è solo un vertice europeo, è anche un bivio tra due diverse visioni della politica, della società, dell’economia.

Da una parte c’è la proposta di liberalizzare i brevetti dei vaccini,  seppur solo in via provvisoria e  per un’epidemia  con tre milioni di morti,

Questa opzione porta con sè l’idea che nel mondo globalizzato non ci salva da soli, siamo tutti interconnessi; e che i profitti delle corporation private non sempre sono assoluti e intoccabili: Possono essere ridotti, moderati o perfino talvolta sospesi per pragmatismo e umanesimo.

Dall’altra parte, dalla parte di chi osteggia la liberalizzazione dei brevetti, c’è la visione opposta: la proprietà privata – compresa quella intellettuale – come un valore assoluto, dogmatico, ideologico, che in nessun caso e puo essere toccato; è l’idea che la mano invisibile del capitalismo senza regole alla fine sistemi tutto, senza che gli Stati e la politica tocchino palla.

Quest’ultima visione è quella che ha prevalso negli ultimi quarant’anni.

Joe Biden sembra aver capito che ora è tramontata, è alle spalle, è antistorica.

Non è ancora chiaro se l’abbia capito anche l’Europa.  

  • Alessandro Gilioli

    Nato a Milano nel 1962, laureato in Filosofia alla Statale. Giornalista dai primi anni 80, ho iniziato a Rp da ragazzo poi ho girato per diversi decenni tra quotidiani, settimanali e mensili. Ho scritto alcuni libri di politica, reportage e condizioni di lavoro, per gli editori più diversi. Tornato felicemente a Radio Popolare dall'inizio del 2021.

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In alto a sinistra

Non sono gay ma…

Non sono gay, ma. Proviamo a fare il verso alle tante (pseudo)giustificazioni che vengono addotte dai vari destrorsi quando vogliono motivare la loro contrarietà a una qualsiasi norma di civiltà (che sia il ddl Zan, la proposta di legge antifascista lanciata dal sindaco di Sant’Anna di Stazzema, il referendum sull’eutanasia).

Potrebbe venire una cosa più o meno così: non sono gay, ma ho molti amici gay. Non sono disabile, ma ho parenti che lo sono. Non sono donna, ma mi piacciono molto (lo so, non quaglia quest’ultima, ma se ci pensate bene nemmeno le varie giustificazioni dei destrorsi).

Allora è per loro che sabato sarò in piazza con i Sentinelli, a supporto del disegno di legge Zan. Per i gay, per i disabili, per le donne. Perché il tempo è davvero scaduto. Ma sarò in piazza anche per me. Perché anche se non sono gay (ma ho molti amici che lo sono), anche se non sono disabile (ma conosco persone che lo sono), anche se non sono donna (ma mia madre, mia zia e mia cugina sì) penso che una qualsiasi norma (anche se perfettibile) che tuteli le persone possa portare a una società migliore. Una società dove si persegue il linguaggio d’odio, nei confronti di donne, gay, disabili. Una società con la legge Zan insomma.

Che la destra italiana sia contraria poco mi stupisce (e poco mi scandalizza) anche se mi fa abbastanza incazzare sentire le loro (pseudo)motivazioni per dire no a una legge del genere. Quello che più mi stupisce (e più mi scandalizza) e ancor più mi fa incazzare, è che anche a sinistra ci sia chi è contrario, adducendo (pseudo)giustificazioni che manco la destra riuscirebbe a sostenere. Perché, cari compagni (vi piace tanto chiamarvi e farvi chiamare così), la frase “non sono contro i diritti dei gay (delle donne, dei disabili, mettete la categoria che preferite) ma non è la priorità perché ci sono i disoccupati (i precari, gli esodati, scegliete voi)” non regge. Ha lo stesso valore del “non sono razzista ma” di leghista memoria. Diritti civili e diritti sociali possono essere portati avanti di pari passo, insieme. Non ho mai visto un diritto civile negato salvare posti di lavoro. Da anni scendo in piazza a ogni Pride, a ogni iniziativa per chiedere un allargamento dei diritti civili, così come manifesto con lavoratori e lavoratrici che rischiano di perdere il loro posto di lavoro. Perché diritti civili e diritti sociali sono due tipologie di diritti che devono essere garantiti a tutti. E una persona che si definisce compagno (che etimologicamente è quello con cui si divide il pane) non può certo essere contro a una legge che moltiplica i diritti.

Allora, compagni, compagne, compagn*, compagnu che dir si voglia, venite in piazza. Oppure inventatevi un meme con la scritta “sono comunista ma…” che mi faccia almeno sorridere.

  • Alessandro Braga

    Classe 1975. Giornalista professionista, prima di approdare a Radio Popolare ha collaborato per anni col Manifesto. Appassionato di politica, prova anche (compatibilmente col tempo a disposizione) a farla

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    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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    "L’identità e il suo significato" nel nuovo album di Billie Marten

    "È un disco che parla dell'identità e del suo significato. Di quando scopriamo la nostra vera identità e di come, in realtà, una vera identità non esista: siamo in continuo cambiamento", ha raccontato Billie Marten ai microfoni di Volume. Per questo lavoro Billie Marten si è trasferita per qualche mese a Brooklyn, avendo voglia di registrare con nuovi musicisti, scoprendo nuovi lati della sua musica. Tornata in America per il tour, è rimasta molto colpita: "È stato scioccante vedere quanto l'America sia cambiata in così poco tempo. Ho visto un arresto dell'ICE in un parcheggio proprio davanti a me. Posso garantire che nei prossimi anni usciranno un sacco di album su tutto questo". L'intervista di Niccolò Vecchia a Billie Marten.

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