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Un ricordo del sassofonista Lee Konitz

Lee Konitz

Lee Konitz ha avuto una vita molto lunga, novantadue anni, e, attivo ancora in tempi recenti, una carriera lunghissima, circa settantacinque anni: una longevità artistica quasi senza paragone fra i grandi jazzmen della sua generazione. Già da tanto sembrava quasi irreale avere di fronte su un palco, con il suo sax alto, un uomo che sulla scena del jazz aveva già una reputazione alla fine degli anni quaranta, accanto a personaggi che ci hanno lasciato già da molto, come – per ricordare solo qualche nome – Miles Davis, Gil Evans, Gerry Mulligan.

Nato nel 1927 a Chicago, Lee Konitz, una delle più importanti tra le grandi figure di origine ebraica della vicenda del jazz, aveva cominciato prestissimo, a quindici anni, a lavorare da professionista, in orchestre da ballo, quando durante la seconda guerra mondiale la chiamata sotto le armi di tanti musicisti aveva favorito l’emergere di una nuova precocissima leva.

A sottrarlo alla dimensione della musica commerciale è l’incontro con il pianista Lennie Tristano, portatore di idee non convenzionali e di una libertà che, raggiunta attraverso un percorso personale, anticipa di una decina d’anni quella che esploderà col free jazz alla fine degli anni cinquanta.

Nel 1949 Lee Konitz partecipa alle sedute di incisione di Miles Davis che passeranno alla storia sotto l’intestazione di Birth of the Cool. Già in quel momento Lee Konitz è un sassofonista dallo stile, dalle doti improvvisative e dal sound unici: è l’esempio più luminoso di sax alto che NON suona come Charlie Parker. E nel breve volgere di pochi anni diventa un modello per tanti sassofonisti, anche in Europa.

Si è tanto parlato dell’influenza del bebop di Charlie Parker e dei suoi compagni sulla beat generation e su Kerouac in particolare: ma a ben vedere l’influenza decisiva, e dichiarata, di un jazzman sullo stile dell’autore di On the Road (che esce nel ’57), è proprio quella, al principio degli anni cinquanta, di Lee Konitz.

Tra il ’49 e il ’50, con e senza Lennie Tristano, Konitz realizza incisioni che sono pietre miliari del cool jazz. La rarefazione, l’astrazione, il distacco della musica di quell’epoca di Konitz non è conciliazione con l’esistente: semmai, per contrasto, è un’implicita contestazione di un mondo tutt’altro che privo di contraddizioni e di assurdo da parte di giovani musicisti non conformisti come Lee Konitz.

Negli anni cinquanta Konitz proseguì poi con un approccio alla musica meno duro, meno intransigente di quello del suo maestro Lennie Tristano, ma sempre da improvvisatore originalissimo, dedito nei decenni, senza mai ripetersi, ad una assidua rimeditazione del repertorio degli standard.

Alla metà degli anni sessanta Lee Konitz è stato anche un pioniere – più o meno contemporaneamente ad una generazione più giovane, quella del post-free chicagoano e dell’improvvisazione radicale europea – delle esibizioni in solo. D’altro canto ha trovato una dimensione a lui molto congeniale nel duo: e in duo ricordiamo fra le altre le incisioni con il pianista Franco D’Andrea.

In una vecchia intervista con il critico Nat Hentoff, Konitz disse: “La cosa più importante, ho scoperto, è divertirsi suonando. Non sono più così determinato a sbalordire con la mia originalità. Se viene, viene… La cosa più importante è divertirsi suonando. In diversi giovani jazzisti sento tutti gli ingredienti giusti, ma non sento una nota che abbia il feeling personale dell’artista: viceversa, io credo di mettercelo, quando suono“.

Fedele all’idea di divertirsi, e convinto a ragione di poter dare qualcosa che faceva la differenza, Konitz ha lavorato moltissimo – anche in Italia – prestandosi a suonare e ad incidere, anche in tarda età, anche con musicisti non di primo piano, e in situazioni nelle quali altre star del jazz non avrebbero accettato di prodursi.

Alla fine del libro in cui dialoga con Andy Hamilton, pubblicato in Italia da Edt, all’intervistatore che gli dice “Hai fatto un gran numero di dischi…”, Konitz risponde: “Beh, sì, li ho fatti. Ne ho uno scaffale pieno qui davanti a me, e ogni volta che mi chiedo ‘Che cosa ho fatto tutti questi anni?’, guardo lì e loro me lo ricordano. Sono grato ai dischi“.

Foto dalla pagina Facebook di Lee Konitz

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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