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Mia cara Olympe

Iran: per Alessia e le altre, la libertà che disturba

Dalle due Simone a Silvia Romano passando per l’artista Pippa Bacca, lei uccisa in Turchia, fino ad Alessia Piperno, oggi detenuta in un carcere iraniano. La memoria mette insieme storie lontane nel tempo – il sequestro delle cooperanti a Baghdad risale al 2004 – e profondamente diverse – molte erano donne che per lavoro stavano in zone di crisi e sono state sequestrate da gruppi armati – mentre Piperno era in viaggio da mesi ed è stata arrestata, probabilmente dopo una serie di post social sulle proteste che infiammano l’Iran per la morte di Mahsa Amini, avvenuta durante la custodia della cosiddetta polizia morale, perché era vestita ‘in modo non consono’.

C’è un motivo, e non è esaltante, per cui si allineano una vicino all’altra, figure di donne – giovani tutte – la cui vita è stata segnata da un’esperienza così pesante e dolorosa che speriamo si concluda in fretta e nel migliore dei modi per Alessia Piperno: è l’impasto di misoginia, meschinità, paternalismo, mancanza di empatia agito da uomini e donne sui social a commento di queste vicende. Nell’infinità delle varianti del famoso ‘Se l’è andata a cercare’ che è stato applicato a tutte queste storie e che viene oggi ripetuto, mi sono imbattuta in un commento, stavolta femminile, che più o meno diceva così: ‘Io a 30 anni lavoravo già e mi pagavo il mutuo’. Apparentemente uno dei più soft tra i tanti letti, ma commento che ben dice quanto infastidisca, nel concreto, la libertà di scegliere per sé percorsi di vita autonomi, quando non convenzionali, come nel caso di Alessia che, da nomade digitale, stava viaggiando in quella parte del mondo. Quanto disturbino queste scelte, perché in esse si sente una minaccia, un fuori quadro rispetto ad una norma, assunta come l’unica legittima.

C’è un nuovo e vecchio perbenismo che attraversa le nostre vite: dobbiamo sapere, o ricordarcene se lo abbiamo dimenticato in favore di pensieri più moderati e ‘ragionevoli’, che è arma sempre servita a mettere in riga le donne. Arma ampiamente usata in ogni dove, nel pubblico e nel privato, dai poteri ma anche, nel micro, dagli uomini e dalle donne contro altre donne. Dobbiamo tenerlo a mente, proprio mentre, via social o nelle piazze, simpatizziamo con la coraggiosissima rivolta delle donne iraniane, ‘Donna, vita, libertà’ il loro slogan ed è la prima volta che la libertà femminile fa in quel paese da collante ad una protesta di massa. Non si può da un lato, perché in fondo costa poco e riguarda un luogo che sentiamo per molte ragioni diverso e remoto, solidarizzare con chi oggi lotta a prezzo della vita e della libertà e, dall’altra, attaccare Alessia e le altre  per le loro scelte: per ‘la contradizion che nol consente’ e che le donne, sempre e sotto ogni cielo, pagano più o meno cara.

 

 

 

 

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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Mia cara Olympe

Dopo la sberla, coraggio (e razionalità)

Si sapeva. Lo sapevamo. Era certo che andasse così, i sondaggi, le cause, gli errori, i problemi, l’astensionismo. E dall’altra parte la ‘novità’, le promesse, ma anche quelli che non ci sono più e che stanno in tanti cuori, l’opposizione che comunque fa premio eccetera eccetera.

Si sapeva. Lo sapevamo. Ma le cose, pure quelle attese o risapute, hanno il difetto di accadere quando accadono e di produrre, in quel momento, il loro effetto. E il  gusto del risveglio del 26 settembre 2022 è stato più amaro di quanto avessimo saputo immaginare e c’è voluto qualche giorno per riprendersi un po’. E sarà anche ‘ragionevole’ la destra che ci governerà perché altrimenti dura poco, non farà cose eclatanti perché i soldi non ci sono e perché ha tutti gli occhi addosso a partire dall’Europa  ma, come su Tiktok ha detto nella domenica elettorale Meloni maneggiando  due  eloquenti cucurbitacee,  ‘ci siamo capiti’.  E quel ‘ci siamo capiti’ –  lo sappiamo da quando gli adulti lo dicevano a noi bambini – contiene sempre un che di avvertimento. Da ora la musica cambia e se non è domani è dopodomani per mettere a segno, un pezzetto dopo l’altro, ciò che questa destra ha in mente. Lo scrivo oggi, giornata mondiale per un aborto sicuro, non perché sia convinta che Meloni picconerà la 194, ma perché penso che su un pacchetto di questioni  ‘identitarie’  che rimandano al ‘Dio, patria e famiglia’ la destra procederà lentamente ma inesorabilmente a erodere diritti faticosamente conquistati, mai del tutto acquisiti o a sbarrare la strada ad altri che potrebbero farci più civili.

E noi, dopo la sberla?  Ho, come tantissimi, passato gli ultimi giorni ad ascoltare e leggere analisi del voto, flussi elettorali, commenti, propositi e opinioni  – molte condivisibili e interessanti – su come rimettere in sesto quel fronte progressista che esce con le ossa rotte da queste elezioni. Non mi iscrivo tra quelli il cui obiettivo principale, prima e dopo il voto, è sparare sul Pd: credo che nessuno, da questa parte della barricata, possa dirsi esente da pesanti responsabilità e non da ieri e tantomeno credo ad un elettorato ‘innocente’ al cospetto di una politica cattiva, lontana, elitaria eccetera eccetera. Rimetterci in marcia, e sarà lunga come ha scritto Michele Serra, significa radiografare anche il nostro cambiamento, di noi cittadine e cittadini dico, senza autoassoluzioni a priori.
Se ci sono due parole che mi piacerebbe tenere ferme, ora che ci rimettiamo in cammino, sono razionalità e coraggio. Razionalità, perché continuo a credere, davanti alla grandezza dei problemi da affrontare, che debba accompagnare ogni orizzonte di cambiamento affinché non sia velleitario: difetto vecchio a sinistra, diciamocelo.
L’altra parola che mi tengo vicina è coraggio: è vero siamo stati responsabili (e non è un insulto, tutt’altro) ora tocca essere coraggiosi, non mollare di un centimetro, rispondere su ogni questione, presidiare i diritti, difendere ogni conquista e rilanciare un’alternativa. Lasciare, per chi vi si è accucciato in questi anni, la comfort zone dei simili a sé, peraltro in calo e pure assai divisi. Il giorno delle elezioni ho ricevuto una telefonata: dall’altra parte un ventisettenne a me caro che, diciamolo, di questa politica se ne infischia abbastanza. Un ventisettenne che invece aveva votato contento e che contentissimo è stato lunedì nel vedere eletta al senato Ilaria Cucchi. Presto detto perché: lì c’è coraggio, lì c’è perseveranza nell’affermare le proprie ragioni e questo parla e convince.

 

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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L'Ambrosiano

Avviso ai naviganti: Nemesi a dritta!

Sesto San Giovanni: Isabella Rauti FdI batte Emanuele Fiano Pd 45 a 30. Nella città medaglia d’oro al valor militare per i sacrifici delle popolazioni e l’attività nella lotta partigiana la figlia di Pino Rauti, volontario della Rsi batte il figlio di Nedo Fiano sopravvissuto ad Auschwitz unico della famiglia. Per capire cos’è l’esito del voto in Italia ed Europa dobbiamo riattrezzarci al pensare simbolico. Mito e immaginazione danno il senso di processi e ipotesi praticabili. Non limitarsi ad analisi dei flussi e scontro di partiti è obbligo morale. Greci e latini avevano Nemesi: impersonava la giustizia distributiva. Punisce chi turba l’ordine dell’universo; riversa sui discendenti ingiustizie e colpe di uomini e nazioni. Cos’abbiam fatto di male per meritarci Giorgia Meloni e i suoi sodali d’Ungheria e Polonia? Non abbiamo applicato la Costituzione nello spirito e in gran parte della lettera. Per anni: omissioni, interessi, ignavie, violazioni, compromessi, attese tradite, speranze svuotate che han corrotto dall’interno il buono che pure s’è fatto, rendendolo alla fine insufficiente, inadeguato. S’è avuto quasi 80 anni di democrazia, libertà, benessere (di pochi); ma quanto le mete si svuotassero lo denunciavano, senza che lo volessimo vedere, l’astensionismo in politica, la bulimia dei social in opinione pubblica, media, rapporti umani. Nella tragedia Nemesi colpisce e il Coro (noi) diventa consapevole delle responsabilità, coscienza personale e collettiva insorgono, si rigenerano. In scena a Sesto tra Rauti e Fiano è andato il futuro: o ci scuotiamo, andiamo alla fonte, la Costituzione, ripartiamo da idee, valori, passioni, sogni, diritti, doveri, giustizia, equità (noi cofondatori dell’Europa!), o Nemesi assesterà il colpo. Ha detto un portavoce di Meloni: la Carta «è bella ma ha 70 anni»; è nata in un momento di criticità (bontà loro), ha sacrificato l’efficienza alla prudenza (sic!). Ecco l’autoritarismo, altro che populismo (di cui si ciancia). Coll’elezione diretta del Presidente della Repubblica addio a equilibri di poteri e contrappesi: uno comanda! Nemesi sorride: vede l’Italia che ha 1° in classifica Scurati Gli ultimi giorni dell’Europa, ma vota Meloni e va a destra.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Appunti sulla mondialità

Myanmar, il golpe desaparecido

Nel mezzo della pandemia, mentre tutta la stampa internazionale era impegnata nel dibattito sui vaccini, in Myanmar i militari ponevano fine alla breve parentesi democratica che si era aperta nel 2012. Era il primo febbraio del 2021: le moderate proteste della comunità internazionale furono messe a tacere dalla Cina, che fece valere il suo diritto di veto presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Era chiaro che, come sempre, i militari birmani agivano in modo coordinato con la Cina per tornare a governare col pugno di ferro un Paese del quale da tempo controllano buona parte dell’economia.

Mentre si susseguono i processi farsa contro la leader Aung San Suu Kyi e i funzionari del governo deposto, la vera natura del golpe emerge con chiarezza: al centro di tutto c’è il controllo delle terre rare di cui il Myanmar è ricco. Con il nome “terre rare” oggi si indica un insieme di 17 elementi chimici della tavola periodica. L’uso di questi elementi è decisivo per la fabbricazione di magneti, superconduttori, fibre ottiche, catalizzatori e vari componenti usati per la produzione di autoveicoli ibridi. Si può affermare che, senza di essi, la rivoluzione tecnologica in corso difficilmente sarebbe avvenuta. Ma le terre che li contengono sono, appunto, rare: si concentrano in specifiche regioni del pianeta e i giacimenti sono in poche mani. La Cina controlla circa il 60% del mercato mondiale e il Myanmar un altro 10%. Dopo il golpe birmano sostenuto dalla Cina, la situazione è diventata quasi monopolistica.

Per motivi ambientali, considerato il pesante impatto ambientale dell’estrazione, dal 2016 la Cina ha cominciato a limitare l’attività sul suo suolo, andando però a estrarre altrove i preziosi minerali. La nuova frontiera è diventata ora il Kachin, una regione semi-autonoma del Myanmar scossa da conflitti armati e ora controllata da un gruppo alleato dei militari di Yangon. Il metodo di estrazione usato in Myanmar produce liquami tossici che vengono scaricati senza trattamenti, inquinando corsi d’acqua e terreni. Secondo l’ONG britannica Global Witness, che ha condotto una ricerca avvalendosi di immagini satellitari, i luoghi di estrazione birmani sono passati in pochi mesi «da qualche decina a oltre 2700 in 300 località». Il Myanmar, come la Repubblica Democratica del Congo, la Repubblica Centrafricana e altri Paesi, è entrato di diritto nel grande gioco delle materie prime strategiche gestito da Pechino, in barba alla democrazia e alla tutela ambientale. La situazione di mercato impone a tutti i fabbricanti di tecnologie “green” di rifornirsi dalla Cina e dai suoi Stati-satellite, che sono però la negazione del principio di sostenibilità. Come per il settore energetico europeo, che dipende dal gas russo e si trova a finanziare il conflitto ucraino, le terre rare sono fornite da chi ha calpestato i diritti umani e sta distruggendo l’ambiente su vasta scala. È questa, al di là della retorica trionfalistica, la più grande contraddizione della società smart, che promette futuri verdi ma è obbligata ad alimentarsi con materie prime tossiche. Forse anche per questa ragione il colpo di Stato dei militari birmani è scomparso velocemente dai titoli dei giornali: la macchina non si può inceppare, anche se per rifornirla bisogna chiudere gli occhi e far finta di niente. E quello birmano è diventato un golpe desaparecido.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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Mia cara Olympe

Quanto vale il mio voto

Meno tre. Poi sarà domenica 25 settembre, giorno di elezioni da chi scrive non volute, anzi piombate addosso a mettere angustia, preoccupazione, ansia. È con questi sentimenti che andrò a votare. Come sempre, nel senso che sempre ho votato, più di altre volte nel senso del carico di preoccupazione sul futuro che accompagnerà la mia scelta. Che, prima ancora di essere una scelta politica, è la scelta di non sottrarmi ad un voto, sia pure subìto. Non è banale, oggi, ricordarlo: perché rischiamo di toccare un’altra vetta di astensionismo, perché sembra essere quella di chi non vota (più, questa volta, da sempre, a seconda dell’offerta politica, gli atteggiamenti sono tanti) una delle opinioni più forti in campo, perché ad astenersi sono e probabilmente saranno maggiormente le donne, perché il territorio sul quale misurare la crisi della rappresentanza, la distanza, la disillusione se non il rancore nei confronti della politica è proprio quello della partecipazione di cui il voto è esplicita espressione.

Eppure, questa è una sensazione, mi sembra che la campagna elettorale non abbia risposto più di tanto alla marea di indecisi/intermittenti/delusi e abbia continuato a rivolgersi all’elettorato già orientato e a quella parte che vota perché pensa quasi inconcepibile non farlo, al netto di giudizi assai critici sullo stato dell’arte. Nel mio caso, l’espressione del voto fa profondamente parte del mio sentirmi cittadina, sia pure figlia di quella cittadinanza imperfetta delle donne sulla quale continuiamo in tante a ragionare, scrivere, dibattere. Il forte timore di oggi – ne ho avuto riprova anche in un recente e interessante dibattito sull’astensionismo femminile promosso dalla Scuola di Alta formazione donne di governo – è che questo sentimento, largamente diffuso nella mia generazione, non lo sia altrettanto tra le donne più giovani e proprio tra quelle che si riconoscono in un’appartenenza femminista. Non votare significa, per loro, esprimere un bisogno di risposte radicali (alla crisi climatica, alle diseguaglianze, ai gap di genere) che non viene soddisfatto e mettere il proprio desiderio di politica altrove, in un territorio non più di tanto interessato alla dialettica con la democrazia rappresentativa, nelle forme di certo non smaglianti che prende qui e ora. Parliamo di donne giovani e il futuro è loro e di donne che stanno consapevolmente e attivamente nel mondo: che ‘manchino’ loro o tante di loro e per scelta rivendicata, in un momento in cui sul fronte dell’agenda delle donne si rischia moltissimo  – e parlo di legge 194 e non solo –  mi sembra un paradosso  straordinariamente eloquente.

 

 

  • Assunta Sarlo

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    PoPolaroid – istantanee notturne per sognatori - 16-09-2025

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