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Il blog dell'armadillo

Tre falchetti sul comò

È passata una settimana da quando anche l’ultima delle tre uova di Giulia e Giò si sono aperte.
Giulia e Giò sono la coppia di falco pellegrino che da alcuni anni hanno scelto il Pirellone di Milano per nidificare, si, proprio il grattacielo di Gio Ponti, a due passi dalla stazione centrale, inaugurato nel 1960 e per decenni uno dei simboli della città.
Per anni il palazzo è stato sede della Regione lombardia, si, proprio Regione Lombardia che qualche giorno fa è stata esposta al pubblico ludibrio da The Guardian on line per il vergognoso record di uccisioni di uccelli migratori e no, da parte dei bracconieri, ma non solo.
Non so chi fu il funzionario responsabile che decise l’installazione delle due web cam che ci permettono di seguire 24 ore su 24 la vita della coppia e della prole. Lo abbraccerei con gratitudine.
Gratitudine perchè se si inizia a seguire il percorso si viene come risucchiati in un mondo fantastico.
Siamo un pò tutti abituati ormai a convivere con animali domestici, ma poter assistere alla nascita, crescita e involo di questi piccoli, ma maestosi rapaci è come tuffarsi in quella natura selvatica, quella dei boschi e delle vette.
La cura che questi genitori prodigano ai figli è emozionante.
Si alternano, si parlano a cambio turno, sono delicatissimi e in questi giorni di vento e abbassamento della temperatura vedere la dedizione, le penne stropicciate, l’arrivo con il cibo (purtroppo altri animali, ma così è la vita), l’attenta distribuzione ai tre piccoli batuffoli che appaiono, con sguardo umano, educatissimi e molto rispettosi del loro turno, fa bene all’anima.
Si parla di pet therapy, ecco il nido del Pirellone a me fa questo effetto.
Mi fa volare in alto, i rumori della città arrivano attutiti.
In tempi così drammatici i falchetti sono un balsamo e un continuo stimolo a riflessioni profonde, a momenti di tenerezza e a sorrisi, a momenti di apprensione se uno non si muove e di stupore.
Ogni mattina è la prima cosa e ogni notte l’ultima.
Bisogna seguire sempre perchè lo svezzamento è veloce e già si intravedono i primi spuntoni di penne e mamma e papà si allontanano per tempi più lunghi.
Ecco se volete regalarvi una carezza seguiteli non dimenticando mai quanto questa regione, ma purtroppo non solo lei, sia nemica dei selvatici e del loro habitat.

  • Cecilia Di Lieto

    In tanti anni di passione e lavoro a Radio Popolare mi sono occupata di tante cose, dalla cultura ai microfoni aperti, dal border trophi a notturnover, dalle feste di ferragosto alle conduzioni musicali, pensando sempre che l'impegno passi anche per strade traverse. Ultimamente le mie energie sono concentrate sull'affascinante e complessissimo rapporto tra noi e altri animali scoprendo che questo vuol dire parlare di clima, ambiente, arte, etologia, associazionismo, filosofia, consumi, alimentazione, ricerca e tanto altro.

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DisOrdine internazionale

Draghi, i dittatori e i diritti umani

Il premier Mario Draghi sembra avere un atteggiamento un poco ondivago sulla rilevanza che il rispetto dei diritti umani occupa nella sua visione del mondo. Ascoltando alcune delle sue ultime uscite pubbliche non si riesce francamente a capire più di tanto. Persino provando a triangolare le ultime tre, si rimane con qualche dubbio.

Nel corso della conferenza stampa conclusiva, tenuta in occasione della visita di Stato in Libia, il primo ministro italiano ha voluto esplicitamente ringraziare la Guardia Costiera libica per il suo “contributo al salvataggio dei migranti in mare”. Il che farebbe ritenere che il rispetto dei diritti di queste persone non gli stia troppo a cuore o, perlomeno, non al punto da mettere a repentaglio i lucrosi rapporti d’affari con l’ex “quarta sponda” e le buone relazioni con le sue autorità governative.

Poi c’è stata però la famosa conferenza stampa in cui Supermario ha definito il presidente turco Erdogan “un dittatore”. Punto di vista condivisibile ed espresso in un contesto – se si vuole – in cui se avesse voluto scegliere parole più caute nessuno lo avrebbe apertamente criticato. Evidentemente, nel caso turco, la sua (giusta e condivisibile) indignazione per le modalità ciniche e spietate con le quali “il sultano” di Ankara sta facendo strame di ogni possibile opposizione era un sentimento insopprimibile, da esprimere a qualunque costo. E infatti Ankara ha subito bloccato alcuni contratti con Leonardo e ha fatto fuoco e fiamme. Un altro “rischio calcolato” (tipo riaperture in pandemia)? Magari sì, considerando che anche ad Erdogan conviene far poco il fenomeno, visti tutti i dossier (malamente) aperti ancora sul tavolo del suo governo. Per ironia della sorte, la sua Turchia ben si attaglia al giudizio che Otto von Bismarck dava dell’Italia liberale: “un Paese dall’enorme appetito ma dai denti guasti”.

Poi però c’è stata la mozione votata dal Parlamento per la concessione della cittadinanza italiana a Patrick Zaki. Neppure il tempo di far seccare l’inchiostro con la quale era stata scritta, che le due fregate cedute dall’Italia all’Egitto (le ultime due FREM appena consegnate alla nostra Marina) salpavano dalla base navale di La Spezia dirette verso Alessandria, mentre Palazzo Chigi rilasciava una dichiarazione nella quale si ribadiva che la votazione parlamentare “non impegnava il governo”. In questo caso gli affari e le relazioni particolari con il dittatore al Sisi (i cui servizi hanno suppliziato il cittadino italiano Giulio Regeni) contano di più che la tutela dei diritti umani di Patrick Zaki (che vorremmo diventasse cittadino italiano per proteggere la vita). Scelta difficilmente comprensibile quella espressa dalle parole del governo, visto che la vita di Zaki può ancora essere salvata.

Come tutte e tutti, mi auguro che Aleksej Navalny (l’oppositore sfuggito ai sicari di Vladimir Putin solo pochi mesi fa e ora in prigione in Russia in gravi condizioni) possa salvarsi e non finire ammazzato dagli sgherri penitenziari del dittatore russo. Nel frattempo, come tutte e tutti, mi chiedo che cosa vorrà dirci su questo caso Mario Draghi, anche per capire finalmente un po’ di più sul posto che il rispetto dei diritti umani ricopre nella sua idea delle relazioni tra governi.

  • Vittorio Emanuele Parsi

    Insegna Relazioni Internazionali e Studi Strategici all’Università Cattolica a Milano, dove dirige l’ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali – e all’USI di Lugano. Si occupa da molti anni dello studio delle trasformazioni del sistema globale, al crocevia tra politica ed economia e tra ambito domestico e internazionale. Ultimi volumi: Vulnerabili: come la pandemia sta cambiando la politica e il mondo (2021), The Wrecking of the Liberal World Order (2021).

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La scuola non serve a nulla

Un finale alternativo (e comico) del “Diario” di Anna Frank

Per "Trilogia della Clausura (1)"

A proposito di lockdown e Dad, Anna Frank, il “Diario”. Dicevo la settimana scorsa che qualche anno fa una mia classe ci ha vinto un premio. Proponendo, in un concorso, un finale alternativo… e lo so che può sembrare fuori luogo, ma era anche comico.
.
Una premessa (lo spiego così ci torna buono pure per le imminenti celebrazioni del 25 aprile): molti ignorano che Anna non scrisse il diario per sé. Un giorno ascoltò alla radio clandestina che il governo olandese in esilio aveva indetto un concorso letterario a tema “Le dure esperienze di vita in clandestinità di rifugiati, ebrei e oppositori politici sotto l’oppressione nazista”. A quel punto, Anna riprese in mano il diario con una prospettiva diversa: lo corresse, lo sistemò e sicuramente avrebbe voluto che qualcuno lo leggesse. E proprio a partire da questo desiderio, abbiamo provato a creare un finale diverso in cui Anna non solo sopravvive, ma si pone il problema di come realizzare il suo sogno di diventare una famosa scrittrice. Più o meno il nostro “Diario” era così:

28/3/1944
Cara Kitty, hai sentito del concorso? Ho deciso di risistemare il Diario e realizzare il sogno: sarò una scrittrice!

7/4/1944
Cara, purtroppo la radio annuncia uno sbarco alleato a breve: se i Nazisti dovessero perdere subito la guerra, saremo liberati troppo presto e la mia storia sarà insignificante. Non verrò neanche notata e non realizzerò mai il mio sogno di diventare scrittrice…

13/4/1944
Kitty, pensavo: ma se i nazisti scoprissero il nostro rifugio, il mio Diario non diventerebbe più importante? Certo, andremmo in uno di quei campi di lavoro che tu sai e alla reclusione si aggiungerebbe la fatica, ma almeno sarei all’aperto e la testimonianza da internata varrebbe sicuramente di più. La fama in cambio del prezzo di qualche mese di lavoro? Sì! Non ho ancora avuto il coraggio di dirlo a mamma e papà, solo a Peter e Margot. Che però ci stanno!

17/6/1944
Oggi abbiamo iniziato a far rumore nel rifugio. Prima uno, poi tanti, sempre più forti. I nostri genitori? Perplessi, ma ci lasciano fare. I nazisti? Boh, nessun segno di vita: o sono scemi o ci fanno!

22/10/944
Con Peter si cantano canzoni yiddish e si sbattono pentole come tamburi: niente. Stavo per uscire dal rifugio, ma Peter mi ha fatto ragionare: per il buon esito della pubblicazione, devono scoprirci loro, non noi ad uscire. Ma quelli niente. Avranno mai giocato a nascondino, i nazisti?

29/1/1945
Gli Alleati avanzano; il tempo è poco. Abbiamo perciò iniziato a urlare “Hitler puzzone! W gli ebrei! Wagner fa schifo!”: nulla di nulla! Neanche quando abbiamo fornito un indizio inequivocabile: il giorno di sabato, siamo stati fermi, zitti e muti. Niente. Mi deprimo.

31/3/1945
Oggi mi sono affacciata alla finestra con un candelabro a sette braccia e disegnando una stella di David sul muro. Niente. Possibile siano così cretini? Non so come gli Alleati ci mettano tanto a sconfiggerli!

7/6/ 1945
Amica, con la guerra è finito anche il sogno di diventare scrittrice. Nessuno è venuto a scovarci, neanche dopo nostra autodelazione anonima al telefono. Sì, siamo liberi… ma che delusione!

12/6/1982
Anniversario dei quarant’anni della scrittura della prima pagina del “Diario”: decido di donarlo a mia figlia, Kitty. Ora che la Storia ha rivelato che i campi di lavoro non erano quello che credevo, penso che ho rischiato, per nulla, la vita mia e dei miei cari. Solo mi chiedo: ma semmai dovessero saltar fuori ancora razzisti, antisemiti o xenofobi in futuro… ecco, potranno mai essere deficienti quanto quelli lì?

  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

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Il tè nel deserto

Oscars so black (and so woman)

Nel 2016 fu #OscarsSoWhite.
Ne avevamo parlato parecchio anche sulle frequenze di Radio Popolare in occasione della cerimonia degli Oscar, per via di un’edizione particolarmente bianca, senza titoli, attrici, attori e registi afroamericani. La campagna, partita proprio dalle poltrone del Dolby Theatre di Los Angeles nella notte della premiazione, è andata avanti e dall’anno successivo l’Academy ha finalmente deciso di includere tra le sue giurie un numero cospicuo di selezionatori black e già che erano in vena di parità persino di donne!

I risultati si sono visti subito, tant’è che nell’edizione 2017 l’Oscar per il miglior film è andato a Moonlight (con quello scambio di buste che inizialmente aveva fatto premiare erroneamente La la Land), così come quello per il miglior attore non protagonista a Mahershala Ali e la sceneggiatura non originale, inoltre a Viola Davis l’Oscar come miglior attrice non protagonista in Barriere, altro film interamente black, diretto e interpretato da Denzel Washington.

All’alba del 26 aprile assisteremo anche in Italia alla cerimonia degli Oscar 2021. Sarà una cerimonia ibrida, con tutti i candidati e le candidate in presenza al Dolby Theatre e per evitare assembramenti si terrà contemporaneamente anche presso la L.A. Union Station e in altri luoghi di Los Angeles che verranno svelati la sera della premiazione.

Le candidature di questa edizione sembrano essere molto più miste rispetto agli anni passati e questa selezione, oltre al tipo di cerimonia e alla data posticipata a causa della pandemia, sarebbe la vera novità di quest’anno. Abbiamo già sottolineato più volte, sempre dalle frequenze di Radio Popolare, la presenza femminile nelle categorie più importanti: Nomadland con la sua regista Chloe Zaho ed Emerald Fennel con il film Una donna promettente, entrambe in gara per il miglior film e la miglior regia.

La sfida sarà interessante, perché i titoli in gara sono di altissima qualità: Mank di David Fincher e Il processo ai Chicago 7 di  Aaron Serkin, per esempio, hanno già avuto un grande successo di pubblico su Netflix, Sound of metal su Prime Video, The father, Minari e Una donna promettente non sono ancora stati distribuiti in Italia, mentre Judas and the Black Messiah di Shaka King è appena arrivato in streaming sulle piattaforme on demand. Ha 5 nominations (film, i due attori non protagonisti, sceneggiatura originale, fotografia, canzone) e si svolge a Chicago alla fine degli anni ’60, nel contesto delle ingiustizie razziali, nei mesi precedenti all’assassinio di Fred Hampton leader delle Black Panthers, da parte dell’FBI. Shaka King ricostruisce quel momento storico d’inquietudine politica e sociale, con la guerra in Vietnam e i movimenti per i diritti dei neri, mettendo a confronto le storie di William Bill O’Neal (Lakeith Stanfield), ex ladro graziato dall’FBI con l’arruolamento (e condanna) come infiltrato delle Black Panthers e il leader Fred Hampton (Daniel Kaluuya), di cui Bill diventa responsabile della sicurezza conducendo l’FBI sulle loro tracce.

Cercatelo questo film e se non li avete ancora visti vi consiglio di guardare anche Detroit di Katherine Bigelow (2017), che ripercorre i disordini civili dell’estate del 1967 con la rivolta in seguito a una retata della polizia con morti, feriti e arresti, che poi si concluse con l’irruzione per rappresaglia da parte di un gruppo di poliziotti all’Algiers Motel, in cui furono uccisi tre afroamericani. E il meraviglioso Blackkklansman di Spike Lee (2018), quando Ron Stallworth (John David Washington), il primo poliziotto afroamericano negli anni settanta, per evitare le discriminazioni razziali dei colleghi, diventa agente sotto copertura infiltrato nel Ku Klux Klan.

Ma tornando ai nostri Premi #OscarsSoBlack non bisogna dimenticare Time un altro bel film, candidato nella categoria documentari, diretto dalla regista nera Garrett Bradley e dedicato alla figura di Fox Ritch, oggi imprenditrice che ha impiegato vent’anni della sua vita a fare campagna per il rilascio del marito, ancora in carcere con una condanna di sessant’anni per una rapina che hanno commesso insieme agli inizi della loro storia d’amore.

Per concludere, ricordo che tra i film nominati oltre a Soul della Walt Disney/Pixar primo film d’animazione con un protagonista afroamericano e Da 5 bloods di Spike Lee per la colonna sonora, c’è anche One night in Miami di Regina King (sceneggiatura e canzone) che ha descritto così il senso del suo lavoro: “Questo film è una lettera d’amore dedicata all’esperienza vissuta dagli uomini di colore in America. Avendo io stessa un figlio, ho ritenuto importante mostrare al mondo cosa significhi. È stata un’opportunità per mostrare queste icone come uomini e fratelli. Amici che possono parlare liberamente e dichiarare che il momento del cambiamento è ora. Questo messaggio incentrato sul cambiamento riecheggia ancora oggi a distanza di decenni. Purtroppo, la recente uccisione di George Floyd e Breonna Taylor ci ha mostrato che la lotta per l’uguaglianza razziale è lungi dall’essere arrivata a conclusione. Abbiamo più che mai bisogno l’uno dell’altro, dobbiamo alzare le nostre voci all’unisono così che non possano essere ignorate e far sì che queste voci siano finalmente sentite”.

Tutti questi film (e non solo questi), che esprimono molto bene gli ideali del movimento Black Lives Matter attendono l’uscita al cinema su grande schermo, ma va detto che con la distribuzione in streaming hanno avuto l’opportunità di raggiungere maggior pubblico possibile.

 

 

 

 

  • Barbara Sorrentini

    Laureata in filosofia, giornalista, conduttrice e autrice a Radio Popolare. Dal 2002 cura e conduce la trasmissione “Chassis” e per qualche anno ha realizzato “Vogliamo anche le rose”, dedicata ai documentari. Per Radio Popolare ha condotto i diversi contenitori culturali e tuttora realizza servizi e interviste per trasmissioni e Gr. Tra le ultime trasmissioni “A casa con voi” e “Fino alle 8” con la rassegna stampa del mattino. È stata direttrice artistica del Festival dei beni confiscati alle mafie. Ha collaborato con La Repubblica, E-Il Mensile, Pagina 99, blogger per MicroMega, Cineforum Web, Cinecittà News, 8 1/2. È tra i curatori del libro Entretiens- Nanni Moretti, edito dai Cahiers du Cinéma, ed è tra gli autori della Guida ai film per ragazzi (Il Castoro). È stata consulente dell’Assessorato alla Cultura di Milano (2012-2013).

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La nave di Penelope

Navigazione a vista

Con il ritorno in zona arancione di quasi tutta Italia, anche i ragazzi fino alla terza media – e almeno il 50 per cento di quelli di licei, istituti tecnici e professionali – sono di nuovo in classe. Ma tra pochi giorni si farà un altro passo: anche gli studenti delle superiori, nelle zone arancioni e gialle, torneranno in presenza al 100 per cento.

Il governo si è posto l’obiettivo di riportare tutti in aula almeno per un mese, per chiudere insieme l’anno scolastico. E così, tutti quelli che hanno visto i propri compagni di classe solo dietro agli schermi – e non sono stati abbastanza rapidi per socializzare nelle poche settimane passate in presenza – avranno un mese per cercare di conoscersi. Sempre se non arriverà un altro stop improvviso.

Il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, non manca di dire in ogni occasione che il governo ha rimesso la scuola al centro. Lo ha detto in diverse interviste nelle scorse settimane, a partire da marzo, all’indomani della chiusura di tutte le scuole a causa delle varianti. Uno strano modo di rimettere al centro la scuola, verrebbe da dire. Certo quale poteva essere la soluzione in un momento d’emergenza? Quello che stonava era però vedere le scuole in Dad e i negozi aperti. Di nuovo.

Come di nuovo si è arrivati a un modo di riportare, alcune settimane dopo, i ragazzi in classe, almeno fino alla prima media. “Salviamone il più possibile” è quello che si leggeva tra le righe. Tra questi però non ci sono quasi mai i ragazzi dai 12 anni in su. Perché le seconde e terze medie hanno subito per lunghi periodi lo stesso destino dei loro fratelli maggiori. E di sicuro, nell’“arca”, non trovano posto quelli dai 14 in su. Perché a loro, nei pochi mesi in cui “è andata bene”, la presenza consentita era del 50 per cento.

I ragazzi delle superiori sono sempre i primi ad essere sacrificati. Considerati abbastanza grandi per autogestirsi, ma poi spesso additati dalla gente come irresponsabili e untori, in un’inquietante spinta a generalizzare e dimenticarsi cosa significa essere adolescenti e quale sacrificio stiamo chiedendo loro, in questa delicata fase della vita.

Incalzato dai giornalisti su come gestire l’emergenza, il ministro Bianchi riporta sempre la conversazione all’importanza di guardare al di là del momento. Per lui bisogna lavorare sul lungo termine, per costruire la scuola di domani. Meno male che finalmente un governo ha capito l’importanza di pensare a modifiche strutturali, all’innovazione e a creare un piano di miglioramento di ampio respiro, utilizzando al meglio la possibilità che ci dà il Recovery fund.

Questo però rimane un piano da disegnare e da costruire mattoncino dopo mattoncino. Un piano a cui si dovrà lavorare con impegno e risorse. Ma i problemi dell’oggi non possono essere ignorati. Ha ragione, non si può trovare una soluzione al contingente che risolva tutto. Qualsiasi cosa sarà come mettere una pezza a una situazione figlia di decenni di tagli, aggravata dalla pandemia.

Ma non si può neanche evitare di dare risposte ai ragazzi che vivono ora la scuola, che sono a casa da quasi un anno e mezzo. Altrimenti il rischio è passare il messaggio che loro siano sacrificabili, ancora. Che si lavorerà per salvare i loro fratelli minori, ma che loro sono dati per persi.

E la risposta a questi studenti e alle loro famiglie, arrivata tardi, non può essere semplicemente “riapriamo per un mese, vi abbiamo dimostrato che per il governo la scuola è una priorità ed è centrale nella vita del Paese”.

Oltre agli apprendimenti da recuperare e che potrebbero mettere i ragazzi in difficoltà in futuro, bisogna fare qualcosa per arginare l’emergenza che li sta investendo dal punto di vista psicologico. Ancora non si è vista una misura o dei fondi che vengano destinati alla salute mentale della “generazione Dad”. Anzi, sulla strategia per affrontare questo problema c’è parsimonia anche solo di parole.

E ora riaprono le scuole. Ma cos’è cambiato rispetto a un mese fa? Quali sono le misure in campo per tenerle aperte? Ci sono nuovi protocolli per arginare la variante inglese?

All’inizio, chiudendo gli istituti, si puntava su vaccinare rapidamente tutto il personale scolastico per riaprire più in sicurezza. Anche questa certezza è stata lavata via quando è arrivata la decisione di destinare le dosi alla popolazione fragile. Quindi, cosa ci fa pensare che questa volta ci saranno le condizioni per non richiudere?

Non solo, tornano tutti in presenza al 100 per cento, come prima della pandemia. Si parla di circa un milione in più di ragazzi rispetto a oggi. Ci sono nuovi spazi? Alcuni presidi lamentano una difficoltà nel rispettare questa percentuale che, con le linee guida sul distanziamento, non potevano garantire neanche a settembre.

E poi, il sistema di trasporti è stato ritarato su un aumento dei flussi? E a che punto stiamo con il sistema di tracciamento? Si parlava di tamponi rapidi a tutti gli studenti?

Aspettiamo risposte. Ancora.

Nel frattempo, ci si fa l’idea che per costruire un piano strutturale per quello che arriverà dopo la pandemia, ora si stia navigando a vista, senza una rotta precisa. Già proiettati verso le stelle della prossima stagione, dimentichiamo il mondo attuale, che ci accompagnerà, però, a lungo.

  • Claudia Zanella

    Sono nata a Milano nel 1987. Ma è più il tempo che ho passato in viaggio, che all’ombra della Madonnina. Sono laureata in Filosofia e ho sempre una citazione di Nietzsche nel taschino. Mi piacciono tante cose ma, se devo scegliere tra le mie passioni quali sono quelle che più parlano di me, direi: la Spagna, il rock e il giornalismo. Dopo averci vissuto, Madrid è la mia città d’elezione; il rock scandisce il mio ritmo di vita e venero le mie chitarre come oggetti magici; infine, fare la giornalista soddisfa il mio impulso alla Jessica Fletcher di voler sempre vedere chiaro e poi raccontare. Ho lavorato per cinque anni per La Repubblica, come cronista e responsabile del settore “Educazione e scuola” a Milano. Cofondatrice del progetto di storytelling su Milano ai tempi del coronavirus: “Orange is the new Milano”. Sono approdata a Radio Popolare nel 2019, occupandomi di un po’ di tutto, ma mantenendo sempre un occhio vigile sul mondo della scuola.

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    Presto Presto – Interviste e analisi - 13-11-2025

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