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DisOrdine internazionale

Da SuperLega a supersega è un attimo

Quanto pesa una consonante quando non la puoi comprare

E diciamocela tutta: non se ne può più di tutti i fenomeni – ex filosofi, ex marxisti, ex giovani – che ci hanno spiegato che “i fessi siamo noi”, quelli che non hanno capito che lo sport, e il calcio più di ogni altra disciplina sportiva, è ormai da molti anni “una questione di soldi”, che “la SuperLega esiste già” e avanti così, di banalità in banalità.

Abbasso la retorica, dunque, morte alla poesia e lunga vita al cinismo, che poi è la versione stracciona e italica del realismo… Premetto che personalmente ritengo qualunque pallone che non sia ovale e qualunque maglia a righe verticali un esperimento malriuscito e mi irritano le sceneggiate che i protagonisti della pedata mettono in atto a ogni minimo contatto o supposto tale. Ma qui evidentemente non stiamo parlando dei nostri gusti e neppure del fatto che nello sport più diffuso e famoso del pianeta i soldi contano.

La SuperLega – questa che in meno di 48 ore si è dimostrata essere una “supercazzola”, per citare l’Ugo Tognazzi di “Amici miei” – non è questo. L’ideona  di Real Madrid e Juventus(cui si sono accodati gli altri club) non era quella di assicurare una competizione più appassionante e spettacolare. Era semplicemente quella di mettersi al sicuro dai propri rispettivi errori di investimento.  Tipo comprare Ronaldo per vincere la Champions ed essere regolarmente buttati fuori. Si voleva azzerare l’errore di merito finanziario, comprandosi l’azzardo morale, il rischio (mal)calcolato.

Ma come? Ci avete tirato scemi con la meritocrazia in ogni ambito, compresa la vaccinazione anti Covid 19, che devi meritarti in quanto “soggetto produttivo”, e poi volete la garanzia che rientrerete dei vostri investimenti sbagliati? Caro Andrea Agnelli e caro Florentino Pérez, volete il “6 politico”? Proprio voi? E pensare che lo sport è il solo ambito in cui il merito ha (o dovrebbe avere) un valore assoluto. Sei più, forte, giochi meglio e vinci. Ed è giusto così.

Ma se fai investimenti a capocchia, se non sai fare il tuo mestiere di manager, invece trovi ingiusto che la conseguenza sia un bilancio in rosso? La questione è che in termini di etica sportiva, una simile richiesta  sarebbe irricevibile e scandalosa. Ma in termine di “etica” degli affari è già così. Il capitale giustifica se stesso in nome del capitale. Il solito refrain del “too big to fail”.

E’ questo che è già così ed è inaccettabile. Il flop della SuperLega ha semplicemente disvelato persino al popolo dei tifosi come funziona davvero il “capitalismo d’azzardo” di questi anni, in cui a pagare sono sempre gli altri, siamo noi: con la compressione dei diritti, delle aspettative, delle tutele, delle speranze. Ed ecco perché tanti mentori e paladini del capitalismo finanziario sono subito intervenuti a bloccare la cosa. Mica per coprire il rapporto tra calcio e denaro, ma quello ben più complessivo e rilevante tra denaro e denaro.

Chi ha irriso poeti e sognatori è sodale e utile idiota di questa trasformazione, non di quella del gioco del calcio. E se non lo capisce è perché, molto probabilmente, gli conviene così. Ma per lo meno che non ci faccia la lezioncina col dito alzato…

  • Vittorio Emanuele Parsi

    Insegna Relazioni Internazionali e Studi Strategici all’Università Cattolica a Milano, dove dirige l’ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali – e all’USI di Lugano. Si occupa da molti anni dello studio delle trasformazioni del sistema globale, al crocevia tra politica ed economia e tra ambito domestico e internazionale. Ultimi volumi: Vulnerabili: come la pandemia sta cambiando la politica e il mondo (2021), The Wrecking of the Liberal World Order (2021).

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Sante parole

A mo’ d’introduzione (ovvero: il giorno in cui gli omosessuali sono diventati gay)

Perché mai un blog in cui si ragiona di parole (tradotte) dovrebbe interessare chi nella vita si occupa d’altro? Provo a spiegarlo partendo da un esempio:

Quand’è la prima volta che avete sentito parlare di un concetto oggi universalmente noto come lo è il Gay Pride? Probabilmente la risposta è: in occasione del corteo di Roma nel giugno del 2000. Di sicuro ancora nel 1986, traducendo una raccolta di racconti destinata a un enorme successo come Ballo di famiglia di David Leavitt, una grande professionista come Delfina Vezzoli aveva scelto di tradure Gay Pride con il generico “una manifestazione di gay”: fino a quel momento in Italia l’omosessualità era quasi un concetto astratto; la maggior parte dei nostri concittadini non aveva mai conosciuto un omosessuale in carne e ossa, tantomeno un gay dichiarato; gli omosessuali erano solo macchiette oppure figure in tragico conflitto con se stesse, come Pasolini. 

Quando nell’autunno del 2020 un editore milanese mi ha chiesto di ritradurre quel libro, che nel frattempo era diventato uno dei caposaldi identitari di un’intera generazione di gay, non mi aspettavo che mi sarei ritrovato su una vera e propria macchina del tempo: nei 35 anni trascorsi dalla prima edizione italiana, il Paese aveva scoperto l’esistenza delle persone omosessuali e questa scoperta è stata innanzi tutto l’acquisizione di un lessico: oggi outing e coming out sono voci del dizionario Treccani (anche se si fa spesso confusione tra i due concetti) e si considera acquisita (o comunque facilmente “googlabile”) gran parte della terminologia di un mondo, dei suoi riti sociali e delle sue pratiche sessuali. Insomma, ci sono voluti decenni e una piccola rivoluzione lessicale perché la nostra società prendesse atto che la vita di ogni gay non è di per sé né una farsa né una tragedia (peraltro ancora oggi siamo ben lungi dall’esserci liberati da un certo pasolinismo kitsch). In questo senso il mio lavoro di ritraduzione è stato molto più semplice di quello della collega: lei si era spesso dovuta sobbarcare un doppio passaggio, quello dall’inglese all’italiano e quello dal “gergo gay” a una lingua comprensibile a qualunque lettore; nel mio caso invece il secondo passaggio i lettori hanno imparato a farselo da sé.

Ecco, la traduzione è questo: non un meccanico sostituire un termine straniero con un termine italiano, ma il traslocare parole e concetti da un tempo a un altro, oltre che da un luogo a un altro. Da questo punto di vista il traduttore non compie questa operazione al posto nostro, ma si limita ad assisterci in un’operazione che compiamo autonomamente –per lo più senza rendercene conto– infinite volte ogni giorno. Ed è per questo che riflettere sulle motivazioni (ideologiche, culturali, sociali, estetiche, etc.) e soprattutto sugli effetti di questo “traslocare parole e concetti” potrebbe interessare anche chi non si occupa (consapevolmente) di traduzione.

 

  • Fabio Cremonesi

    Studi di storia dell'arte medievale, un passato da operaio presso uno spedizioniere, dirigente in una multinazionale delle telecomunicazioni, editore e promotore editoriale, oggi mi dedico alla traduzione a tempo pieno. Le mie lingue di lavoro sono tedesco, inglese e spagnolo (occasionalmente anche portoghese e catalano). Con Le nostre anime di notte di Kent Haruf ho vinto il premio Corriere della Sera-La Lettura per la miglior traduzione del 2017.

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L'Ambrosiano

Liberazione e 25 aprile 2021. Quella pietra d’inciampo della pandemia

Questo 25 aprile non assomiglia ai più recenti. Pure l’anno scorso c’era il Covid. La novità del 2021 sta in un’accezione della memoria nuova. Rispetto al 2020 stiamo forse imparando: ricordare per non ripetere errori. Il 1945 è molto lontano e gli ultimi testimoni, quasi centenari, stanno per andarsene.

Le generazioni venute dopo han mostrato tante ambivalenze nei confronti della Liberazione. Ai giovani, la terra in cui il seme della memoria può depositarsi e dare frutti, rischia di arrivare qualcosa non solo di remoto, ma di irrilevante, estraneo, se non addirittura fallimentare. I rigurgiti di fascismo, nazismo, antisemitismo saranno anche frutto di disegni eversivi o menti disturbate, ma non sono estranei alla lotta tra umano e disumano che nicchia nei recessi psichici (non solo dei sovranisti) e che soltanto una strenua vigilanza può contrastare.

La pandemia è una fortuita e indiretta alleata nel ricordare, nel rendere attuale la Liberazione, farla diventare mentalità. Un anno di lotta al virus ha rigenerato il bisogno esistenziale di rivivere, far memoria, intraprendere l’esercizio mentale ed affettivo che fa fiorire esiti. Etica della memoria è guardare ciò che preferiremmo non vedere: le povertà, vecchie che inerzia e ignavia fan crescere a dismisura, e le nuove: nostre e di mondi che premono ai fili spinati dei nostri cuori; le ingiustizie; le disuguaglianze che tra 2020 e 21 il virus ha reso clamorose; le sofferenze di soma e psiche; le incertezze di tempi in cui uscito il mattino non sapevi se saresti tornato la sera, preso in un rastrellamento e rinchiuso in un carro piombato destinazione lager tra l’indifferenza generale, incertezze che attanagliano oggi vuoi col virus, vuoi con l’insipienza dei politici che fan campagna elettorale sulla pelle nostra e chiamano “liberazione” il 26 aprile perché s’incomincia con le “riaperture” nel tentativo di ricacciare indietro la vividezza della Liberazione.

Poveri gattini ciechi, e astorici: il 25 aprile è un anticorpo, ce lo portiamo dentro: endemico. È ancora sotto controllo il virus contro la voglia di lotta per la libertà. Covid 19 e cacciata dei nazifascisti: storie di tempi diversi, una pietra d’inciampo per due. Per evitare errori.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Mia cara Olympe

Grillo: quando rispondono gli uomini

Non aggiungerò una sola parola di commento al video di Grillo che difende il figlio, imputato e in attesa di giudizio insieme ad altri coetanei, di violenza sessuale ai danni di una ragazza. Sul suo contenuto, sulla cultura che lo ispira abbiamo letto e ascoltato tantissimo. Ed è qui, tra le tante cose lette e ascoltate, che mi sembra, per una volta, di poter cogliere un segnale che fa ben sperare.
Moltissimi commenti sui social e sui media stavolta sono di uomini. Non solo commentatori, ma uomini, in molti casi padri – ascoltati anche sulle frequenze di Radio popolare – che apertamente si dissociano non solo dal messaggio ma, più in generale, da un modello del maschile e del paterno che Grillo rappresenta, direi plasticamente ed enfaticamente.

Sono troppo ottimista? In alcune di queste dissociazioni – ad esempio di commentatori dei giornali – c’è una sottintesa presa di distanza che può mandare a dire che il tema della violenza, la cultura dello stupro riguardano solo chi se ne rende attore e colpevole? Sì e no, e per una volta il mio personale pendolo oscilla più sul no. Perché prendere parola è comunque un fatto potente e se la prendono gli uomini, e lo fanno in tanti criticando il video di Grillo, stanno implicitamente dicendo una  cosa che, a queste latitudini, non è per nulla assodata: ovvero che la violenza non è un tema delle donne, ma una grande questione maschile.
Chi scrive, come molte altre, ha malsopportato, ogni volta che nel mondo succedeva qualcosa di orribile alle donne, il ritornello – spesso lanciato dai media più conservatori e spesso usato nelle vicende che potevano a loro consentire una chiava antiislamica – del ‘silenzio delle femministe’. Ritornello trito quanto banale e non vero: che, stavolta, accanto alle tante e giuste parole di donne ci siano anche parole di uomini, parole di padri (e quanto è importante che siano padri e madri a trasmettere modelli diversi del maschile e del femminile) mi sembra, in questa triste e violenta storia, una piccola luce.

 

 

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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I giorni dell'Ira

Un nuovo giorno dell’Ira: Discorso alla Nazione

Stamani mi sono svegliata alle 6.00. Per chi fa il mio lavoro non è strano. Ma oggi andavo a documentare un flashmob surreale, che mi ha molto intenerita. Moto dell’animo difficile da interpretare, la tenerezza. Soprattutto per un flashmob. Ma quando ho visto un grappolo di teatranti assonnati zampettare al ritmo della Danza delle Ore di Ponchielli, suonata da violino e fisarmonica, tenendo il ritmo con il cucchiaino battuto sulle tazzine e sciamando in Piazza del Duomo, mentre una veterana della commedia declamava il Discorso alla Nazione della celebre caratterista napoletana Tina Pica, non ho potuto trattenerlo, il sorriso. E quindi il mio giorno dell’Ira di oggi, sempre valido, è proprio quel famoso discorso.

«Smidollati, vi state avviando a essere una delle popolazioni più scolorite della storia dell’umanità. Sono diversi decenni, ormai, che la storia d’Italia si è interrotta per dare spazio a una insignificante cronaca, fatta di aria fritta. Oh, mamma santa, e che cos’è, avete perso la capacità di ragionare? Per quanto tempo ancora vi farete mettere i piedi in testa da un manipolo di esseri immondi e senza vergogna? Che razza di uomini e donne siete, se vi manca la forza e il coraggio di dare forma ed espressione alla vostra insofferenza e alla vostra miserabile condizione? E che caspita, un po’ di ribellione, ogni tanto, giova alla salute e fa andare pure meglio di corpo! Donne, accorciatevi le maniche e non abbiate paura di apparire poco femminili: prendete per il cravattino chiunque abusi della vostra pazienza e generosità! Uomini, tornate a fare gli uomini! Riposizionate la schiena, per la miseria! E smettetela di trastullarvi, senza ritegno, sorbendo ciofeche televisive e letteratura impataccata! Smettetela, una volta per sempre, di sopravvalutare le schifezze che vi propina la comunicazione. Vi siete rimbambiti a tal punto da non saper riconoscere un buon libro, un programma divertente, un film interessante, una discreta politica, una persona per bene, un buon ragù? Imparate a dire pane al pane e vino al vino, dando il giusto valore alle cose e alle persone, e vedrete che attraverso un giudizio sano e onesto sarà possibile, man mano, ripristinare la moralità e il merito. Oh, misericordia, troppe mezze tacche, oggi, nei diversi rami, tengono incontrastate il campo! Se continuate a dar retta a queste ciabatte vi ridurrete alla pezzenteria culturale, oltre che materiale, rischiando di vivere la più indecente delle esistenze. Perbacco, io sono nata popolo, non sono mai stata altro, e, come Robespierre, non ho mai desiderato essere qualcosa di più! Orsù, dunque, sorella, conto sulla tua natura di donna avveduta, affinché tu possa, con la tua lucida chiarezza, contribuire pesantemente al cambiamento delle cose. Quanto a te, uomo, dai luogo alla rivoluzione che ti restituisce alla vita. Fratello, se non decidi, adesso, di rinnovarti e rigenerarti, ti ridurrai a pallido individuo, senza speranza e senza creanza! Fratello, ti vedo flebile, vatti a coricare. Chissà, che al risveglio, tu non rinsavisca?!»

  • Ira Rubini

    Nata in Belgio, vive a Milano. Studia insieme legge e teatro. A 20 anni inizia a scrivere per la TV e firma oltre 40 trasmissioni, come la diretta della notte degli Oscar in cui vinse Benigni. Come antidoto, scrive teatro (anche con Franca Valeri) e gira il mondo per fare documentari. Insegna teatrologia alla Paolo Grassi e coordina il corso di Sceneggiatura alla Luchino Visconti. La radio è il primo amore: esordisce a Radio Popolare a 14 anni, poi ci torna a condurre il quotidiano culturale. Lavora a RadioRAI e alla Radio Svizzera Italiana. A volte, le piace tornare in scena con l'ensemble Ottavo Richter.

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