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Trieste: accogliere per non creare emarginati

Preoccuparsi di trovare un tetto ai richiedenti asilo in attesa del riconoscimento di status non basta: per chi arriva da un viaggio traumatico e, ancor prima, da una vita di privazioni, il primo contatto con la nostra società è complicato. Per sentirsi a proprio agio ci vuole tempo. Nelle scorse puntate di Welcome abbiamo già visto come, nelle esperienze di accoglienza che funzionano, l’assistenza giuridica, quella psicologica, quella medica, si devono accompagnare anche all’insegnamento della lingua italiana, e all’apprendimento di un lavoro.

Trovare un’occupazione, condizione che garantisce la chiave per l’integrazione, resta però un problema. Lo conferma Gianfranco Schiavone, presidente di ICS: “La formazione professionale è il primo problema: il sistema di formazione in Italia non vede le esigenze particolare dei richiedenti asilo e non investe su di loro” con il risultato che non ci sono corsi sufficienti per tutti, ci sono lunghi periodi dell’anno scoperti, e le possibilità sono molto limitate. “In questo modo però si contribuisce a spingere queste persone verso le fasce basse del lavoro o direttamente verso il lavoro nero” continua Schiavone, “Insomma, ancora una volta manca un progetto politico”.

Un’altra particolarità dell’esperienza triestina è che l’accoglienza riguarda sia chi è in attesa del riconoscimento di rifugiato, sia chi è titolare: “La legge prevede l’accoglienza solo nella fase iniziale: quando il richiedente asilo ha ottenuto lo status, lo abbandona”, spiega ancora Schiavone. Questo significa che in molte città italiane, nelle quali i sistemi di accoglienza e il sistema Sprar sono separati, il richiedente asilo ad un certo punto viene “lanciato nel nulla. Un programma sociale scriteriato, folle, quasi criminale, che crea senza fissa dimora sul territorio. È esattamente quello che i pubblici poteri non dovrebbe fare”. L’accoglienza diffusa in questa città nasce dalla volontà di considerare la presenza dei rifugiati non come un’emergenza, ma come un cambiamento: sono gli enti pubblici che devono rispondere alle esigenze di questa nuova fetta di cittadini. Per questo il sistema di accoglienza a Trieste è comunale “I servizi di accoglienza sono servizi alla persona, e quindi vengono erogati dall’ente locale, come nei confronti di qualsiasi altro cittadino che è in difficoltà”. Il più recente orientamento giuridico va in questa direzione, Trieste ha non solo precorso i tempi, ma ad oggi è l’unico comune titolare del progetto di assistenza.

Ascolta le testimonianze dei richiedenti asilo ospiti dei progetti di microaccoglienza a Trieste:
WELCOME trieste richiedenti

Non solo il lavoro: a Trieste i richiedenti asilo possono anche partecipare alla realizzazione di un programma radiofonico: Specchio Straniero, che va in onda sul circuito Amisnet e su alcune delle Radio del network Popolare. Stefano Pieri è uno dei responsabili del laboratorio radiofonico “Molti operatori, che lavoravano con i migranti appena arrivati in Italia, segnalavano come la funzione della parola e del racconto fosse fondamentale per anche per l’integrazione e per riallacciare un filo con la propria cultura e il proprio passato”, l’idea di realizzare un programma che vedesse i migranti protagonisti è nata da qui, e da settembre ad oggi il laboratorio sta lavorando proprio con questi obiettivi. “Per i ragazzi rappresenta la possibilità di esprimersi e di raccontarsi, ma è anche occasione di confrontare le diverse culture, o di commentare le notizie sull’immigrazione”, continua Pieri, “Noi operatori arriviamo alla riunione di redazione con delle proposte, ma poi succede che i ragazzi preferiscano parlare di altro, e noi diamo loro la possibilità di farlo. Per noi significa anche dare la possibilità agli italiani di entrare in contatto con il mondo dei richiedenti asilo”.

Ascolta questa puntata di Welcome dedicata a Trieste:

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    Sara Milanese
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    Nel corso della storia, la comparsa e la diffusione su larga scala di tecnologie che hanno contribuito a riplasmare la rappresentazione di sé e del mondo hanno sempre generato paure e previsioni "apocalittiche". È andata così con la scrittura alfabetica, con la fotografia, con il cinema, con la televisione e anche con Internet. Senza eccezione, ogni rivoluzione tecno-scientifica ha partorito profeti di sventura e cantori dei disastri che le "macchine" avrebbero prodotto sugli individui e sulla società. Oggi l'atteggiamento prevalente non è cambiato. Sul banco degli imputati abbiamo il digitale - e in particolare la sua declinazione ritenuta più pericolosa, soprattutto per i giovani: lo smartphone. Disattenzione, ansia, isolamento sociale, sindrome da ritiro sono solo alcuni dei sintomi con cui si tende a diagnosticare la morbosa dipendenza dalla tecnologia più temuta e più utilizzata. C'è chi rimpiange un'umanità perduta e chi invece rincorre "patenti" o divieti. Saranno queste le soluzioni più efficaci? E, ancor prima, sono attendibili le analisi, le argomentazioni e le narrazioni che sembrerebbero legittimare questi rimedi? Gli autori di questo libro partono da qui. Smascherando false ideologie e inutili scorciatoie, fanno il punto sullo stato dell'arte della ricerca neuroscientifica per arrivare a prospettare orizzonti culturali e educativi in grado di fare i conti con le sfide e le criticità che una società digitalizzata inevitabilmente porta con sé. Il libro "Oltre la tecnofobia. Il digitale dalle neuroscienze all’educazione", edito da Raffaello Cortina Editore, è stato scritto a tre mani da Vittorio Gallese, Pier Cesare Rivoltella e Stefano Moriggi. Quest'ultimo è stato ospite di Ira Rubini oggi a Cult.

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