Gli ambienti renziani hanno fatto filtrare due ipotesi sul destino del segretario del Pd.
La prima prevede che Renzi si dimetta, affidi la reggenza a un fedelissimo – il più quotato è il vicesegretario Guerini – e prepari la battaglia per il congresso libero dal peso dell’incarico politico.
La seconda immagina che Renzi non si dimetta ma organizzi il congresso il più presto possibile, nei primissimi mesi del 2017.
Due schemi alternativi, per ottenere i medesimi risultati: evitare di farsi logorare ulteriormente, ricostruire l’immagine compromessa, impedire alle minoranze di organizzarsi. E cercare di tenere assieme la propria maggioranza, che rischia di sfaldarsi. Cosa faranno Franceschini e i suoi? E i “giovani turchi”, come il presidente del partito Orfini o il ministro Orlando, il cui nome circola tra i possibili candidati alla segreteria? Se Renzi rimanesse circondato solo dal “giglio magico” e dai fedelissimi della prima ora, sarebbe la fine.
Quindi fare in fretta, per regolare i conti coi traditori, come suggeriscono nel Transatlantico di Montecitorio i renziani più aggressivi. Non a caso le minoranze adesso vogliono tempi lunghi. Un bersaniano come Davide Zoggia afferma che Renzi dovrebbe continuare a fare il segretario, altri spiegano che sarebbe meglio portare a termine la legislatura senza cambiare granché.
Ma questi sono scenari di Palazzo intrisi di pretattica, sia da parte dei renziani che da parte dei suoi avversari.
Altra cosa sono i dati reali.
Se Renzi può pensare di far fuori un ceto politico, rischierebbe però di dover rinunciare a tanti elettori tradizionali. Secondo le prime analisi dei flussi, come ad esempio quelle dell’Istituto Cattaneo, nelle aree urbane tra il 20 e il 30 per cento degli elettori Pd hanno votato No, con punte fin oltre il 40 per cento al Sud. E’ un raffronto con le elezioni politiche del 2013, guidate da Pierluigi Bersani. Era il “vecchio” Pd, diverso da quello di oggi e da quello delle Europee del 2014.
Se Renzi decidesse di forzare anticipando il congresso potrebbe vincere e tenersi il marchio ma sarebbe un partito completamente diverso rispetto alle origini. Ecco perché ci sono, tra i renziani, anche coloro che gli consigliano di cambiare strategia, di prendere atto di non essere riuscito a conquistare quel ceto medio arrabbiato che in Europa e negli Stati Uniti si ribella attraverso il voto cosiddetto anti-sistema, attribuito in Italia alla destra e al Movimento 5 Stelle cui, domenica, Renzi non ha sottratto voti nonostante una campagna elettorale condita da molti tratti di populismo. Sarebbe utile, ragionano, cambiare in primo luogo la legge elettorale con elementi proporzionali. Lo schema della vocazione maggioritaria è morto il 4 dicembre. Con chi cercare alleanze stabili sarà un altro tema di confronto e scontro tra le diverse anime del Pd.