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COVID-19 spodesta il mercato e i neoliberisti. Intervista al sociologo Colin Crouch

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Sta arrivando la crisi del secolo. Ad innescarla le chiusure e i blocchi di campi, uffici e fabbriche decisi in funzione anti-coronavirus. Come sarà? Durissima, prevedono le principali istituzioni internazionali e i centri di ricerca. Come se ne uscirà? Quali politiche economiche verranno decise? Quale sarà il ruolo dello stato e del pubblico, dopo gli anni fallimentari dell’ideologia neoliberista del mercato? A Memos Raffaele Liguori ha intervistato il sociologo e politologo britannico Colin Crouch, professore emerito all’Università di Warwick, membro del Max Planck Institute di Colonia.

Crouch ha coniato il termine postdemocrazia con un saggio del 2000 (Coping with Postdemocracy), tradotto poi in italiano nel 2003. La postdemocrazia è una malattia della democrazia, uno stadio della sua involuzione dove c’è ancora posto per l’esercizio del voto, le elezioni, mentre svanisce lo spazio per la democrazia dei diritti. “Combattere la postdemocrazia” (Laterza, 2020) è il titolo del suo ultimo libro.

L’intervista inizia da un editoriale pubblicato il 3 aprile scorso dal Financial Times in cui si indicano una serie di politiche contro la crisi. L’elenco sembra ricalcare i punti di un programma progressista e di sinistra. Nell’articolo si parla di “governi più attivi nell’economia”, di “redistribuzione all’ordine del giorno”, di “imposte sulle ricchezze“.

Professor Colin Crouch, un programma di sinistra promosso dal quotidiano della finanza globale. È sorpreso? 

Non è tanto una sorpresa. Nonostante sia il giornale del mondo finanziario della Gran Bretagna, sia un centro mondiale del pensiero neoliberista, il Financial Times (FT) è sempre stato un po’ più alla sinistra di una posizione di centro-centrosinistra. Quelli del FT non sono neoliberisti.
Prima di quest’ultimo editoriale c’è stato un cambiamento molto più generale tra i veri neoliberisti, per esempio nel governo britannico. Qui iniziano a farsi discussioni sul ruolo dello stato, sulla disuguaglianza, sull’importanza di servizi pubblici. Del resto queste discussioni si stanno facendo un po’ ovunque nel mondo che riteniamo essere neoliberista.
In questi contesti è possibile che i neoliberisti dicano che il mercato è fatto per tempi normali. Per i “tempi anormali“, invece, c’è bisogno di altre soluzioni. E dopo la crisi si può tornare alla normalità neoliberale, secondo loro.
Allora il mercato non è la soluzione di tutti i problemi. Negli ultimi quatto decenni i neoliberisti ci hanno detto che il mercato può risolvere quasi tutti i problemi del mondo molto meglio dello stato. Ma questo ora non sembra essere più valido.
Poi c’è qualcosa di più importante. Le crisi anormali succedono raramente, ma quando accadono dobbiamo essere pronti. Crisi anormali possono essere sia esogene al mercato, come questa crisi del coronavirus; sia endogene, come la crisi economica del 2008. Poi ci possono essere crisi più locali, come terremoti o inondazioni.
Poiché queste crisi anormali succedono ogni tanto e poiché dobbiamo essere pronti per affrontarle, allora vuol dire che non dobbiamo seguire il modello neoliberista nei tempi normali. Se abbiamo bisogno di uno stato capace di fornire servizi pubblici con risorse abbondanti, oppure se abbiamo bisogno di migliorare i mercati del lavoro con redditi bassi e alti livelli di insicurezza, allora dobbiamo cambiare anche nei tempi normali. È questa la grande sfida per i neoliberisti.

Professor Colin Crouch, quindi in un’epoca di emergenze per il neoliberismo non c’è spazio? Chi vuole la fine del neoliberismo deve solo sperare che l’epoca delle emergenze prosegua? Oppure il neoliberismo ha già mostrato di non farcela, non solo nelle emergenze, ma anche nell’ordinario? Penso, ad esempio, ai fallimenti “ordinari” del capitalismo neoliberista nell’assicurare l’uguaglianza.

Sì, certo. Negli anni ’80-’90 c’era una teoria molto influente, in particolare tra i socialdemocratici in Gran Bretagna, in Germania, forse anche in Italia. La teoria sosteneva che nei tempi moderni – con una popolazione e una forza del lavoro ottimiste e ricche –  i rischi dell’economia non sarebbero più stati una minaccia, ma un’occasione, un’opportunità. La conseguenza sarebbe stata che non avremmo avuto più bisogno dei servizi di sicurezza sociale, di leggi per tutelare i diritti del lavoro. Ma questa teoria era sbagliata. Perché i tempi della grande insicurezza, quando le persone normali erano molto vulnerabili per le crisi economiche, non erano ancora passati. Sono tempi sempre presenti e non dobbiamo passare da un vecchio sistema del welfare in uno nuovo totalmente diverso. Abbiamo bisogno sempre delle protezioni dei deboli, dei lavoratori, delle famiglie.

Professor Colin Crouch, perché un piccolo virus sta bloccando il mondo? Sembra essere l’ultimo segno della globalizzazione di questi ultimi decenni, un virus che gira per il mondo, senza incontrare ostacoli, un po’ come fanno i capitali grazie alla globalizzazione neoliberista. Si alzeranno muri e confini nazionalisti per bloccare il virus?

Non è la globalizzazione che spiega come possono crescere virus come quello che sta colpendo mezzo mondo. Nei secoli passati, dal periodo medioevale fino a due secoli fa, molti virus sono arrivati da paesi come la Cina, ad esempio attraverso la Serenissima di Venezia. La globalizzazione non c’entrava in quel periodo. Erano solo tempi di commerci, di viaggiatori. Oggi non possiamo chiudere tutte le frontiere nazionali per abitare da soli nei nostri piccoli paesini. Lo stato-nazione non è la barriera per il Coronavirus. Oggi, paradossalmente, in Italia sembra che il territorio della vecchia Lega Nord sia un paese a parte vista la concentrazione di casi di COVID-19. Ma ciò non deve comportare che il resto dell’Italia metta delle frontiere verso il nord del paese.

La crisi da COVID-19 rischia di mettere in difficoltà le democrazie, rischia di farle diventare sempre più “post-democratiche”, per usare una sua espressione, se non addirittura di deviarle verso l’autoritarismo? O si tratta di una preoccupazione esagerata?

Sì, è esagerata. Certo, ci sono rischi di questo tipo. C’è un paese che è quasi una dittatura come l’Ungheria. Ci potrebbero essere casi di leader anti-democratici che possono usare l’emergenza virus per prendere più potere. Ma, si può dire anche che in molti paesi, oltre alla crisi c’è una società civile che risponde, che riscopre la comunità locale, i vicini. In questa crisi c’è una grande presenza della società civile, della comunità. E ciò rafforza i poteri della società. Le dittature non funzionano mai quando c’è una società civile forte. Ecco, questa è la mia visione, il mio ottimismo.
Quanto al nazionalismo, è molto vero che i nazionalisti come Donald Trump usano questa crisi per rafforzare il loro localismo. Ma c’è anche un altro livello, ad esempio quello scientifico. La virologia, l’epidemiologia, sono scienze che ci stanno aiutando e che non sono nazionali. Non c’è una virologia americana, una virologia tedesca. C’è invece un mondo delle scienze dove tutti contribuiscono al bene degli altri. L’edificio della sapienza sulla medicina è un progetto internazionale. Le scienze non conoscono frontiere nazionali.
E poi abbiamo bisogno di un grande progetto multinazionale su questa malattia. Quando COVID-19 arriverà in quelle parti del mondo molto povere, come in Africa, parti dell’America Latina e dell’India, allora il numero dei decessi arriverà a livelli che non possiamo nemmeno immaginare qui in Europa o negli Stati Uniti. Sarà impossibile escludere l’infezione da quelle parti delle mondo. E vi arriverà quando noi avremo risolto i nostri problemi.
Serve un lavoro di collaborazione internazionale per combattere Covid-19 nel mondo. Non è possibile chiudere i paesi per combattere il virus. Solo una collaborazione senza precedenti può aiutarci in questo momento.

Ma il momento, professor Colin Crouch, non sembra essere dei più propensi. I leader delle principali potenze sono personaggi che non puntano alla collaborazione internazionale: da Trump a Bolsonaro, da Modi a Xi, da Putin a Orbàn. È così, professor Colin Crouch, o sono troppo pessimista?

Dobbiamo ragionare, argomentare, fare discorsi come i nostri, perché è importante che le voci per la collaborazione si alzino. Dobbiamo combattere sempre.

La crisi economica che sta arrivando. Come la si affronta? Prima parlavamo di redistribuzione del reddito, di imposte sulla ricchezza, solo per citare due misure di un programma progressista, alternativo al neoliberismo. Cosa possono fare i governi, le politiche pubbliche? Basta solo la redistribuzione di quanto prodotto (reddito) oppure le politiche pubbliche dovranno cominciare ad indicare anche il cosa produrre?

Sì, certo. Siamo già arrivati a questo punto con l’economia verde, con i problemi del clima. Abbiamo già in molti paesi, in particolare in Europa, un progetto per convertire l’economia verso prodotti verdi che non inquinano. Non possiamo continuare con un mercato che risponde solo ai bisogni dei consumatori. A questo si devono aggiungere altre cose che arrivano dal settore della salute, delle medicine. Dobbiamo mettere molti più soldi nella farmaceutica, nella salute, non solo per bisogni immediati, ma anche per bisogni possibili del futuro. Dobbiamo aspettarci una certa inefficienza: rischiamo di produrre cose di cui forse non avremo bisogno in futuro o forse sì. Non possiamo continuare con un’economia che segue principalmente il mercato, dobbiamo avere un’iniziativa pubblica. Solo gli stati possono fare questo, non ci sono altre istituzioni (forse i volontari, le chiese). Solo lo stato può fare iniziative di questo tipo per interessi comuni e pubblici, sia per il clima che per la salute.

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