Bad Input

La proprietà è un concetto superato e non me n’ero accorto

Forse il titolo è un po’ sopra le righe, ma rispecchia esattamente il contenuto. Quindi ci sta. Da dove arriva questa coraggiosa affermazione? Come spesso accade, da un incidente. Qualche giorno fa mi sono trovato nella condizione di dover dire addio al contenuto del mio iPhone (colpa di un inciampo in un aggiornamento) senza poter contare su alcun backup. Una sorta di “tempesta perfetta” che non sto a spiegare per non sprecare preziosi byte sul server di Radio Popolare.

In sintesi: a un certo punto mi sono trovato di fronte alla situazione di dover fare il fatidico “click” che avrebbe cancellato sette anni di fotografie e video dal mio smartphone. Il resto (contatti, email, messaggi) erano recuperabili. Le foto e i video, no.

È uno di quei momenti in cui il tempo subisce buffe deformazioni (l’unico paragone che mi viene in mente per quando si perde il controllo della moto, i motociclisti mi capiranno) e ci si ritrova in una sorta di slow motion in cui i secondi sembrano durare minuti.

In quei lunghissimi istanti, ho realizzato due cose:

Primo: una buona parte dei contenuti memorizzati sul mio iPhone erano assolutamente inutili o, per lo meno, il loro valore era tale da rendere la loro perdita quasi indolore. L’unica cosa di cui mi interessava davvero, erano le foto e i video della mia coinquilina a quattro zampe che mi ha abbandonato (alla tenera età di 20 anni) lo scorso 18 dicembre.

Secondo: quando ho cercato di recuperare le immagini e i video del mio felino preferito, mi sono reso conto che sarebbe stato più facile di quanto avrei mai potuto pensare. Li avevo spammati ovunque: alla mia compagna, agli amici, sui social. Insomma, nel giro di una manciata di minuti avevo tutto (o quasi) di nuovo a portata di polpastrello.

È a questo punto che ho realizzato. Di fronte alla mancanza di disperazione e alla facilità con cui ho recuperato le fotografie del felino che ho servito per gli ultimi 20 anni, mi è venuto da pensare che cosa sarebbe successo se avessi chiesto a tutti i miei contatti (non l’ho fatto) di trasmettermi le fotografie che gli ho inviato negli ultimi sette anni. Probabilmente avrei ricostruito completamente il mio rullino foto.

Ok: assodato questo, rimaneva da capire perché questo fosse possibile. Sono un irriducibile esibizionista vanesio che compulsivamente condivide con il mondo tutto quello che fotografa e riprende? Sono vittima della deformazione da social che cancella il perimetro del “privato” trasformandolo in “pubblico”?

Tutto sommato (la dichiarazione non vuole essere autoassolutoria) ho deciso che no, non lo sono. Semplicemente ho realizzato che ogni singola volta in cui ho impugnato il mio telefono per scattare una foto o registrare un video, non l’ho fatto per catturare l’istante, fissare un ricordo o rubare l’anima della persona ritratta (anche se l’idea ha un suo fascino). L’ho fatto perché volevo condividere quel momento con qualcuno.

Il motivo per cui non ho trovato così doloroso dire addio a tutti quei GB di dati era che quelle immagini, quei video, avevano già assolto al loro scopo: comunicare (l’etimo è “mettere in comune”, grazie Giuseppe Mazza) un momento, un’emozione, un’idea.

Di “possedere” quelle fotografie, in fondo, non mi è mai interessato nulla. E questo è un pensiero che mi piace un casino.

P.S: ciao Pepe, mi manchi un po’.

  • Marco Schiaffino

    Dopo una (breve) esperienza come avvocato, nel lontano 2000 mi sono trovato quasi per caso a scrivere di Internet e nuove tecnologie, quando il Web e il digitale erano una specie di hobby per smanettoni e appassionati di fantascienza. Mentre continuavo a scrivere per la mia banda di nerd, mi dannavo per trovare il modo di passare a quello che pensavo fosse un giornalismo “più serio”. Qualche volta ce l’ho anche fatta. Poi è successa una cosa strana: quello di cui mi occupavo da anni, ha cominciato a interessare tutti. Ho smesso di dannarmi.

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    Il 7 dicembre la Scala apre la stagione con l’opera censurata da Stalin

    Nel cinquantenario della morte di Šostakovič il Teatro alla Scala inaugura la Stagione con il suo capolavoro Una lady Macbeth del distretto di Mcensk, tratto dal racconto di Nikolaj Leskov in cui una giovane sposa con la complicità dell’amante uccide il marito e il tirannico suocero, ma viene scoperta e finisce per suicidarsi in Siberia, tradita da tutti. Dopo il debutto a San Pietroburgo, l’opera, che avrebbe dovuto essere il primo capitolo di una trilogia sulla condizione della donna in Russia, ebbe enorme successo in patria e all’estero. Stalin assistette a una rappresentazione a Mosca nel 1936; due giorni dopo apparve sulla Pravda la celebre stroncatura dal titolo “Caos invece di musica” con cui il regime metteva all’indice l’opera e il compositore. Anni dopo Šostakovič preparò una nuova versione che andò in scena a Mosca nel 1963 con il titolo Katarina Izmajlova, dopo che il sovrintendente Ghiringhelli aveva invano cercato di ottenerne la prima per la Scala. Oggi il Teatro presenta la versione del 1934 con la direzione del M° Chailly e il debutto del regista Vasily Barkhatov. Ascolta Riccardo Chailly nella presentazione dell’opera.

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