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Un ricordo del geniale produttore Hal Willner

Hal Willner

Il produttore musicale Hal Willner si è spento lo scorso 7 aprile nella sua abitazione di Manhattan per complicazioni legate al coronavirus COVID-19. Il ricordo di Marcello Lorrai.

Certo, c’era stato Escalator over the Hill, l’ambizioso lavoro di Carla Bley che, pubblicato nel 1971, aveva messo insieme una vocalist del jazz d’avanguardia come Jeanne Lee e una cantante pop come Linda Ronstadt, un protagonista storico del free jazz come Don Cherry e una star rock come l’ex Cream Jack Bruce. Episodio luminoso, ma anche dal punto di vista dell’incontro di mondi diversi rimasto sostanzialmente isolato. Tanto che nella prima metà degli anni ottanta rimescolare le carte fra i generi e fra musicisti di diversi ambiti di appartenenza continuava ad essere tutt’altro che scontato: anche per questo motivo fecero scalpore alcuni album e progetti che rompevano le barriere convenzionali cercando delle sintesi inedite, puntando su una convergenza estetica, su complicità profonde che smentivano e scavalcavano le tradizionali separazioni.

Il polo di questa effervescenza era New York, la cui creatività musicale negli anni sessanta e settanta era stata via via corroborata dal free jazz, dal punk, dalla no wave. Nella prima metà degli anni ottanta il produttore Kip Hanrahan, che del resto era stato in contatto con Carla Bley, pubblica album magistrali come Vertical’s Currency, in cui combina sapientemente esponenti del jazz più avanzato, dell’avantgarde e della no wave, così come – cosa all’epoca particolarmente insolita – virtuosi della musica latina, in particolare percussionisti, nonché un personaggio – di nuovo – come Jack Bruce.

Nella stessa fase i Material del bassista Bill Laswell si pongono come il crocevia in cui percorsi che erano apparentemente lontani fra loro (già, ma Lou Reed non era forse un ammiratore della prima ora di Ornette Coleman e di Cecil Taylor?) rivelano invece delle amorose, sensuali, spesso selvagge affinità, fra jazz avanzato, punk, funk, black music, così che per esempio un leone del free jazz come Archie Shepp si trova accanto una giovane Whitney Houston.

Sempre nella prima metà degli anni ottanta il produttore Hal Willner pubblica i primi di una serie di memorabili tributi: il primo nell’81 è Amarcord Nino Rota: la genialità di Willner – portato via il 7 aprile a 64 anni dal coronavirus – sta tanto nell’assortimento di musicisti coinvolti, quanto nella sorpresa che riesce ad ingenerare nell’ascoltatore proponendogli la musica del grande compositore interpretata da artisti la cui associazione col mondo musicale di Rota e dei film di Fellini è in molti casi tutt’altro che ovvia: si va da Carla Bley – eccola di nuovo – a Deborah Harry, cantante del gruppo Bondie e figura di culto della new wave newyorkese degli anni settanta, da Muhal Richard Abrams, guru dell’avanguardia jazzistica chicagoana, a Steve Lacy, in un superlativo solo di sax soprano su Roma.

Il fiuto di Willner lo si coglie fra l’altro dall’inserimento in questo album di una Giulietta degli spiriti rivisitata in solo da Bill Frisell, che all’epoca sta emergendo, e che diventerà poi uno dei chitarristi più considerati del mondo. Nell’84 poi un altro album folgorante, That’s The Way I Feel Now, doppio LP dedicato a Thelonious Monk, con partecipazioni cha vanno da artisti pop come Joe Jackson – impegnato in Round Midnight – Todd Rundgren, Donald Fagen, il gruppo dance Was (Not Was), a jazzisti come la Bley, Lacy, Gil Evans, Randy Weston, Elvin Jones, Bobby McFerrin e un fulminante John Zorn, all’epoca ancora non molto conosciuto dal grosso pubblico. Seguiranno altri album dedicati a Kurt Weill, con la partecipazione di Sting, a Mingus e alla musica dei film di Walt Disney.

Nato a Philadelphia nel ’56, Willner era figlio di un sopravvissuto all’Olocausto. Se Willner ha fatto epoca con i suoi tributi discografici – e prima dell’inflazione dei dischi-omaggio – questa è stata solo una parte di una attività amplissima, che lo ha visto produttore per Lou Reed e per Marianne Faithful, collaboratore per colonne sonore di Robert Altman, in rapporto con protagonisti della beat generation come William Burroughs e Allen Ginsberg, e coordinatore musicale della trasmissione televisiva Saturday Night Live.

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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