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Rosy Bindi: “L’Europa non sopravviverà se non è solidale”

Parlamento Europeo

Dalla sanità pubblica tradita dalla politica, ai pericoli per la democrazia sempre in agguato dietro le emergenze; dall’Europa dei nazionalismi (come Orban e la deriva anti-democratica, ma anche Merkel e gli “euro-egoismi”), alla minaccia globale delle mafie, pronte ad aggredire con i loro capitali criminali le imprese in crisi. Sono alcuni dei temi della conversazione a Memos con Rosy Bindi, già presidente della Commissione Parlamentare Antimafia nella scorsa legislatura, Ministra della Sanità nei governi Prodi e D’Alema alla fine degli anni ’90, Eurodeputata tra il 1989 e il 1994.

Bindi è stata anche Ministra per le politiche della famiglia con il secondo governo Prodi (2006-2008), Presidente del partito democratico tra il 2009 e il 2013 e Parlamentare in Italia dal 1994 al 2018.

L’intervista di Raffaele Liguori a Memos.

Perché per anni si sono tagliati i fondi alla sanità pubblica come se fosse normale mettere le mani su quelle risorse? Come se quelle risorse fossero in eccesso?

Forse non ci siamo mai fino in fondo convinti quanto sia grande un principio molto semplice: la salute è un diritto fondamentale della persona e un interesse della comunità. E come tale va tutelato non in base alle disponibilità economiche di ciascuno, ma in base al grande valore della salute che non è solo assenza di malattia, ma è benessere delle persone.
Io credo fino in fondo a questo principio. Un principio che significa che ciascuno partecipa ai costi della sanità secondo le proprie disponibilità e ne usufruisce secondo i propri bisogni. Ritengo che non si sia mai davvero creduto a questo principio. Affermarlo ci ha trovati sempre d’accordo, ma le conseguenze dell’affermazione di questo principio, a partire dalla politica e da certi politici, non sono mai state comprese fino in fondo.

Bisogna dire che questa “disattenzione” ben identificata a destra è stata registrata negli ultimi anni anche a sinistra.

Nella riforma del 1999 io ho avuto resistenze dentro la maggioranza che sosteneva il governo del quale facevo parte. Se non avessi avuto dalla mia il presidente Prodi prima e il presidente D’Alema dopo, la riforma non si sarebbe fatta per alcune resistenze culturali e politiche presenti anche nel centro-sinistra che considerava anche il confronto con il modello lombardo, allora guidato dal presidente Formigoni, una sorta di diatriba politica nella quale non si faceva fatica a cogliere qual era la questione politica centrale che ruotava intorno al sistema sanitario.
C’è una differenza tra le regioni governate dal centrosinistra e quelle governate dal centrodestra, però su alcune debolezze che sono emerse in questi giorni la differenza non è poi così evidente.
Su questo spartiacque, culturale prima che politico, credo che si debba aprire un dibattito molto profondo, subito dopo questa vicenda. Adesso i presupposti per capire di che cosa stiamo parlando ci sono tutti.
In questi anni si è de-finanziato il sistema sanitario in Italia. Non solo, non lo si è nemmeno governato. E non si è governato per due motivi. Il primo: sicuramente 21 sistemi sanitari regionali non fanno un sistema sanitario nazionale.
Credo che in questi anni sia mancato un governo nazionale e sia mancato un tavolo nel quale regioni e ministero della sanità non discutessero soltanto di bilanci e di rientro dal debito, ma discutessero anche della qualità e dell’appropriatezza dei servizi sanitari, oltre che della programmazione sanitaria nazionale e regionale. Si dovevano mettere a confronto le scelte fatte dai vari sistemi regionali. Bisognava avere il coraggio sia di giudicare le scelte positive e negative che di esportare quelle positive in altre parti del nostro territorio e proibire invece quelle sbagliate.
Questo è sicuramente uno degli elementi della impreparazione che esisteva anche prima e che stiamo vedendo ora.

Questa erosione della sanità pubblica era soltanto il frutto di un disconoscimento della salute come diritto oppure sulla sanità pubblica e sulle sue risorse si sono indirizzati interessi fortissimi?

Sì, oltre che il de-finanziamento c’è stato anche un uso non sempre appropriato delle risorse. In questi giorni, ad esempio, emerge con chiarezza la sottostima del fabbisogno del personale sanitario. Sono anni che alcuni di noi puntualmente ad ogni finanziaria presentano emendamenti per adeguare l’organico sanitario e che sono stati bocciati puntualmente. Il problema vero non sono le lauree in medicina, sono le specializzazioni. In Italia se non sei specializzato non puoi esercitare. E tutto questo è stato aspramente sottovalutato. Non solo. In questi giorni si sta vedendo la carenza dei posti letto e di determinate tecnologie rispetto ad altre. Sulla diminuzione dei posti letto siamo in linea con l’Europa perché questa era la sanità del futuro. Il problema è che non si è mai sviluppata la sanità del territorio o l’assistenza domiciliare. A tutto questo si è accompagnato un acquisto esorbitante di alcune tecnologie rispetto ad altre e non si è finanziata sufficientemente la ricerca. Oggi ci si accorge anche di un altro fatto: nessuno può essere pronto da un giorno all’altro alla sfida di una pandemia, però un piano di emergenza che sia in grado di scattare immediatamente senza incertezze e senza la lungaggine delle discussioni deve essere pronto. Questo non potrà più accadere.
Oggi stiamo facendo delle scelte legate all’emergenza. Nessuno pensi di lasciare aperti i capannoni che si stanno allestendo in questo momento. Sarebbe una follia far diventare strutturali le soluzioni improvvisate di questi giorni.
Un sistema sanitario pubblico deve avere un piano predisposto per quando si presentano sfide come queste. Non si possono vedere le differenze tra la Lombardia e la Sicilia. Se c’è un elemento di programmazione nazionale è sicuramente la sfida di fronte a emergenze come quella che stiamo vivendo.

L’Europa ce la può fare e resistere alla crisi sanitaria, sociale ed economica del coronavirus nonostante egoismi e nazionalismi?

Mi lasci dire una cosa che penso da troppo tempo. Non è pensabile che la FCA (Fiat-Chrysler, ndr) paghi le tasse in Olanda. Non è ammissibile un paradiso fiscale in Europa. In questi giorni stanno emergendo anche altri elementi. Io lo vedo anche con l’occhio dell’ultimo incarico che ho avuto e che mi ha arricchito moltissimo, quello della Commissione Antimafia. Noi abbiamo all’interno dell’Unione Europea paradisi fiscali e paesi off-shore come Malta. In questi momenti i nodi vengono tutti al pettine e dovremo affrontare anche questi. Nulla dovrà tornare come prima. È evidente che la lotta alle mafie o è europea o mondiale o altrimenti abbiamo una pandemia che preesiste a quella del COVID-19. Le mafie in questo momento aumenteranno il loro consenso se non interveniamo. Aumenteranno nel Mezzogiorno e nelle periferie delle grandi città di ogni parte del nostro paese e di ogni parte d’Europa.
Con pochissimi euro si compreranno il consenso per far fronte alle povertà e ai bisogni vitali delle persone e continueranno a comprarsi l’economia legale perché la carenza di liquidità che avremo – e la necessità di liquidità che ci sarà – troverà sicuramente un finanziatore del denaro illecito delle mafie. E questo è un fatto europeo in questo momento.

Sono compatibili con la democrazia le misure di emergenza decise per combattere la pandemia di coronavirus COVID-19? In Ungheria il premier Orban sta sfruttando l’emergenza sanitaria per espropriare il parlamento di Budapest. Chi controlla in Europa le tentazioni autoritarie?

Orban ha approfittato della pandemia per attuare la sua idea di democrazia, che non è democrazia. E credo che l’Europa non dovrebbe solo far di conto in questi giorni, anzi dovrebbe un po’ distrarsi dalle compatibilità di bilancio e dovrebbe invece sanzionare chi sta mettendo a rischio o addirittura sta sospendendo la democrazia. Io ho fatto anche la parlamentare europea, ho cominciato nel 1989 quando crollava il Muro di Berlino. Tra i requisiti per far parte dell’Unione Europea c’è la democrazia che risponde a determinati princìpi. In questo momento l’Ungheria è fuori da quel presupposto. È chiaro che non si può fare come Orban, ma è chiaro che ci sono alcune libertà che di fronte a un bene superiore – e in una fase emergenziale – possono essere in qualche modo limitate. Io, anche per mie necessità fisiche, facevo fino a 10 chilometri al giorno e adesso non li posso fare. Sono disponibile a sacrificare questa mia libertà ed è giusto che mi venga chiesto di sacrificarla. Se mi si chiede di non uscire di casa e di andare a fare la spesa una volta a settimana, è giusto che me lo si chieda. Se per comperare le mascherine o per acquistare dei respiratori o per costruire degli ospedali si devono sospendere le regole degli appalti, va bene in questa fase emergenziale.
Nessuno si metta in testa, però, che questa possa diventare la regola. Il modo con il quale la pubblica amministrazione sta agendo in questo periodo non è trasferibile nell’ordinarietà, perché questo vorrebbe dire che noi non abbiamo più un’amministrazione che dà le garanzie e le tutele ai cittadini.
In questi giorni si vede anche la differenza tra chi ha interiorizzato i principi del costituzionalismo della seconda metà del Novecento e chi invece sta usando la pandemia per sospendere la democrazia. Sento dire che nulla tornerà come prima. Ecco, alcune cose, invece, devono tornare come prima.

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