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Srebrenica, le rimozioni della narrazione pubblica europea

srebrenica

Questa è un’intervista al fotogiornalista Andrea Rizza Goldstein, di Marco Siragusa, tratta da Osservatorio Balcani Caucaso.

Andrea Rizza Goldstein, fotogiornalista, è stato impegnato dal 2010 al 2017 con la Fondazione Alexander Langer Stiftung per il progetto Adopt Srebrenica , un progetto psico-sociale nel post-conflitto bosniaco. Dal 2017 lavora per Arci Bolzano-Bozen come coordinatore e membro di numerosi progetti tra cui “Ultima fermata Srebrenica ”. Membro della Commissione Memoria e Antifascismo di Arci nazionale, collabora con numerose scuole superiori della Provincia di Bolzano come consulente esterno per la formazione nei progetti di cittadinanza sui temi della memoria, dei diritti umani, dell’antiscriminazione e della gestione dei conflitti. Lo abbiamo intervistato nell’occasione del 22mo anniversario del genocidio di Srebrenica.

L’11 luglio 1995 le truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić entrarono nella “zona protetta” (dalle Nazioni Unite) di Srebrenica. Nei giorni successivi alla caduta della città, le forze militari e paramilitari serbo-bosniache liquidarono sistematicamente oltre 8 mila bosgnacchi – i bosniaci musulmani. Si trattò del primo genocidio avvenuto in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale, dimostrato e dichiarato tale da numerose sentenze di giustizia penale internazionale. Come venne accolto l’evento nel continente e qual è stata la sua eredità nella recente storia europea?

Dall’avvio dell’operazione finale serbo-bosniaca su Srebrenica, l’area era monitorata dagli aerei spia statunitensi e ci sono fotografie aeree che documentano le deportazioni degli uomini bosgnacchi verso i luoghi delle esecuzioni. Il 14 luglio 1995, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite emise un comunicato sulla base delle informazioni relative a «uccisioni di civili inermi» a Srebrenica, condannandole come «inaccettabile procedura di pulizia etnica». Ci sono anche richieste ufficiali di intervento internazionale, indirizzate a tutta la catena di comando ONU-UNPROFOR da parte della leadership bosniaco-musulmana, riguardo al destino di alcune migliaia di prigionieri bosgnacchi detenuti al campo sportivo di Nova Kasaba, che verranno poi uccisi nei giorni successivi. Voglio dire che, sulla linea ONU-UNPROFOR-Gruppo di contatto, pare piuttosto evidente che ci fosse la consapevolezza di cosa stesse accadendo nella zona di Srebrenica. Non mi risulta che ci siano stati interventi internazionali per impedire che questo accadesse. E gli stermini di massa sono andati avanti fino al 16-17 luglio, mentre liquidazioni di gruppi più piccoli di prigionieri sono state registrate fino a fine luglio.

Il problema è che per una serie di motivi il destino di Srebrenica probabilmente era già segnato. Dai documenti a disposizione, tra cui le Direttive del Comando UNPROFOR, è chiaro che nelle stanze dei bottoni era già stato deciso di non intervenire.

Il tema delle responsabilità internazionali nel genocidio di Srebrenica, come momento apicale della tragica dissoluzione violenta della ex-Jugoslavia, ha trovato pochissimo spazio nella narrativa pubblica europea. Queste responsabilità partono dall’aver accettato di interloquire, legittimandoli, con leader politici locali che promuovevano progetti di esclusivismo etno-nazionale come soluzione alla crisi politico-istituzionale jugoslava. Il circolo vizioso avviato dalla mediazione internazionale nel sostenere “uomini forti”, “stabilizzatori” è alla base di quell’escalation di violenza che ha prodotto le pulizie etniche – termine coniato proprio per descrivere cosa stava succedendo in ex-Jugoslavia- , gli stupri etnici di massa come strumento di guerra, le deportazioni, i campi di concentramento e un nuovo genocidio in Europa.

Eppure, i discorsi e i proclami dei politici locali erano piuttosto chiari. A livello internazionale si è però voluto accettare di interloquire con qualsiasi cosa non “puzzasse” di jugoslavismo, di socialismo, nel contesto dell’Europa post caduta del Muro di Berlino. E quello che hanno prodotto le propagande locali e votato le comunità della dissolvenda federazione jugoslava, sono stati partiti e leader politici etno-nazionalisti, paladini degli interessi etno-territoriali di gruppo. Lo stesso Karadžić, leader politico dei serbo-bosniaci condannato nel 2019 al carcere a vita per il genocidio di Srebrenica e altri crimini contro l’umanità, tra i quali l’assedio di Sarajevo – a novembre del 1991 dichiarò: «Questa è una lotta fino alla fine, una lotta per lo spazio vitale». La comunità internazionale, l’Europa, ha fatto finta di non capire che si stava parlando di Lebensraum.

Per capire che posto hanno la dissoluzione jugoslava, la guerra in Bosnia ed Erzegovina e il genocidio di Srebrenica nella narrativa pubblica europea basta cercare nella manualistica scolastica. Da noi, per esempio, le guerre jugoslave degli anni Novanta sono risolte con un capitoletto striminzito che spesso fa riferimento a una guerra civile – che non è stata! – o a un conflitto etno-religioso e ne trova la causa nel concetto di “polveriera balcanica” o nella presunta predisposizione antropologico-genetica di quei popoli alla violenza. Si tratta di spiegazioni “comode” per non affrontare il tema delle responsabilità internazionali nella dissoluzione violenta della federazione jugoslava, fino al genocidio di Srebrenica.

Se è vero – e penso che sia proprio così – che «la costruzione di una memoria pubblica è un processo in continua trasformazione, dove la memoria è il risultato di un processo di scelte e di selezione, di conflitti pubblici e primo fra tutti il rapporto tra memoria e oblio, tra ciò che una comunità vuole ricordare (e celebrare) e ciò che vuole dimenticare, rimuovere o nascondere» [Bruno Maida, “Fare memoria oggi”, Ed. Arci, Seminario nazionale su memoria e antifascismo, Collegno (TO), 27-28 giugno 2015], l’omissione di memoria (e di analisi) rispetto a quanto successo in ex-Jugoslavia, fino al genocidio di Srebrenica, rientra in pieno in questo processo di selezione e oblio. Con l’evidente obiettivo di “sorvolare” sull’analisi delle responsabilità internazionali, mentre in realtà sarebbe (stato) fondamentale – dopo Srebrenica – fermarsi per mettere a nudo il crash di sistema e tutte le responsabilità connesse.

Oltre a morte e distruzione, quali sono state le conseguenze del genocidio per la popolazione di Srebrenica e per gli equilibri etnici?

Cerco di non usare il termine “etnico” riferito a bosgnacchi, serbi o serbo-bosniaci, croati o croato-bosniaci, ecc. Uso più volentieri (gruppo, appartenenza) etno-nazionale, anche se in realtà nel linguaggio politico jugoslavo erano definiti popoli. Alcuni avevano lo status giuridico-costituzionale di popoli costitutivi – sloveni, croati, musulmani (bosgnacchi dal 1992), serbi, montenegrini e macedoni – e si scrivevano con la lettera maiuscola. Poi c’erano le nazionalità (minoranze nazionali) come ungheresi, tedeschi, italiani, slovacchi, albanesi, ecc. e i rom, perché la Jugoslavia – unico paese al mondo – riconosceva costituzionalmente lo status di minoranza nazionale ai rom. E non si faceva differenza, nella definizione, per esempio tra serbi di Serbia o serbi di Croazia o serbo-bosniaci; un serbo era “Serbo”, se al censimento si dichiarava tale, inteso proprio come appartenente a uno dei sei popoli costitutivi, indipendentemente dal fatto che vivesse in Croazia, Bosnia Erzegovina o Slovenia. Al censimento ci si poteva anche dichiarare jugoslavi, che in realtà sarebbe stato lo status di cittadinanza nazionale.

Queste “complessità”, questi istituti giuridici fuori dagli schemi delle strutture occidentali, sono stati semplificati con la chiamata identitaria all’appartenenza (escludente) a un gruppo etno-nazionale e possiamo tranquillamente dire che è stato un Nation building in ritardo di un secolo e mezzo, con l’attualizzazione del Blut und Boden come ideologia (criminale) mischiata al concetto di Lebensraum, che ha spostato il significato etico e morale di tutto ciò che è stato commesso in nome della “nazione”, fino appunto al genocidio. Nicole Janigro spiega molto bene questa “esplosione delle nazioni” rispetto al fallimento del tentativo di depotenziare le micro-identità nazionali a favore di una meta-identità jugoslava e le possibili ripercussioni sulla meta-identità europea, nel passaggio su «L’Europa che muore a Sarajevo è quella della Ragione occidentale».

Un altro elemento da tenere in considerazione, se parliamo di conseguenze del genocidio, è il trauma. La municipalità di Srebrenica, prima della guerra (censimento del 1991) aveva 36.666 abitanti di cui 27.572 (75,19%) musulmani, dal 1992 denominati bosgnacchi; 8.315 (22,67%) serbi; 380 (1,03%) jugoslavi; 361 (0,98%) altri. Nella città di Srebrenica città vivevano 5.746 abitanti, di cui 3.673 (63,92%) bosgnacchi, 1.632 (28,40%) serbi, 34 (0,59%) croati, 328 (5,70%) jugoslavi e 79 (1,37%) altri. I dati ufficiali più recenti, quelli del censimento del 2013, riportano il numero surreale di 13.409 abitanti di cui 7.248 bosgnacchi, 6.028 serbi, 16 croati. 23 persone non si sono dichiarate per appartenenza etnico-nazionale e 67 si sono dichiarati “altro”. Confrontando questi risultati con il censimento del 1991 (l’ultimo prima della guerra) Srebrenica ha perso 23.257 cittadini (63,43%). Di questi, 20.324 musulmani. Tenendo presente che ci si può dichiarare residenti anche per i soli fini elettorali e che realmente in tutta la Municipalità di Srebrenica vivono non più di 5-6.000 persone delle quali circa 2-3.000 in città (dati ufficiosi), questi sono i risultati delle pulizie etniche e del genocidio. E la situazione non è diversa in altre parti della Bosnia Erzegovina.

Srebrenica è una comunità traumatizzata, distrutta nella sua continuità identitaria dal genocidio, che ha cancellato una parte di se stessa. Distrutta dal punto di vista delle relazioni socio-antropologiche, che vive in una situazione di sospensione e di narrative in conflitto rispetto a quanto successo durante la guerra. Hasan Nuhanović, traduttore presso il battaglione dei caschi blu olandesi, testimone diretto e promotore del processo contro l’Olanda per responsabilità nel genocidio, una volta mi ha detto: «Srebrenica non ha ancora risolto l’equilibrio tra la vita e la morte. É in bilico tra essere una città morta e una città dei morti. Una città morta può tornare a vivere, ma una città dei morti sarà tale per sempre. Oggi sono più i morti nel genocidio sepolti a Potočari, che i vivi che abitano a Srebrenica». E a proposito delle vittime del genocidio, a distanza di quasi trent’anni, sono ancora oltre mille le persone che non sono ancora state ritrovate.

Questo impedisce a diverse centinaia di famiglie di ricollocare il trauma e mantiene la comunità di riferimento in una situazione di sospensione e di attesa, che blocca qualsiasi possibilità di cominciare a rielaborare il lutto e i traumi individuali e collettivi. E questo è un passaggio fondamentale, necessario prima di poter pensare di avviare un dialogo, una discussione pubblica su quanto avvenuto durante la guerra e sul genocidio.

Ancora oggi, trovare una comune lettura del passato sembra impossibile. Basti pensare al rifiuto dei leader politici serbo-bosniaci di riconoscere quell’evento come un “genocidio”. Quali sono i motivi e gli ostacoli che impediscono una reale riconciliazione o, ancora prima, di quella che viene definita una “memoria storica condivisa”?

Non credo molto nel concetto di memoria condivisa, specialmente in contesti di compresenza di comunità diverse all’interno di un determinato spazio sociale. Lo ricollego a delle operazioni artificiali, politico-istituzionali, discendenti dall’alto, spesso con poca aderenza alla realtà vissuta dalle comunità interessate, oppure frutto di Powerplay o di approcci colonialistici al post-conflitto. La riconciliazione è frutto di un processo di lungo termine. E ogni comunità dovrebbe avere il tempo di trovare il modo di stare dentro alla complessità della storia che la riguarda.

Faccio riferimento all’esperienza concreta del compianto Sinan Alić e della sua fondazione “Istina, Pravda, Pomirenje ” – Verità, giustizia, riconciliazione. Ecco, il nome indica quelle che secondo me sono le pietre miliari del processo di riconciliazione. Ogni elemento costitutivo di questo percorso gerarchico rappresenta un processo complesso di per sé. Il processo di definizione della verità è complesso e altrettanto quello della giustizia. A questo si aggiunge il tema della war legacy intergenerazionale, della difficoltà ad avviare processi di dialogo e discussione pubblica sulla c.d. “storia dell’altro”, prima di poter pensare di essere all’inizio di un processo di riconciliazione.

In questo contesto si colloca il progetto che abbiamo appena concluso con il Memoriale di Srebrenica e che è stato presentato il 10 luglio nell’ambito degli eventi per le Commemorazioni delle vittime del genocidio. Il progetto “Srebrenica 2.0” è finanziato dal MAECI (Ministero degli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale) ed è un partenariato tra il Memoriale di Srebrenica e una rete di associazioni italiane che da diversi anni hanno costruito relazioni con la Bosnia Erzegovina e con Srebrenica in particolare (Arci Bolzano, Trentino, Firenze, Associazione Buongiorno Bosnia di Venezia, Centro Pace di Cesena e Teatro Zappa Theater di Merano).

Si tratta di un percorso di memoria digitale , App scaricabile per dispositivi mobili, che si sviluppa in nove luoghi della storia significativi per comprendere lo svolgersi dei principali eventi che hanno portato al genocidio del luglio 1995 e nasce da una serie di osservazioni e rilevazioni sul campo.

Innanzitutto, la necessità di trovare il sistema di riportare la memoria a Srebrenica, in quanto luogo della storia. Il luogo della memoria, ovvero il Memoriale di Srebrenica , si trova a Potočari, che dista alcuni chilometri dalla cittadina, mentre il luogo della storia – Srebrenica – non ha sostanzialmente nessun segno di memoria pubblica rispetto a tutto quello che è successo lì. Eppure, Srebrenica è stata il luogo della storia dove si sono vissuti i destini di parecchie decine di migliaia di persone dal 1992 al 1995, fino al momento del genocidio, che avviene in altri luoghi rispetto all’area urbana di Srebrenica.

Questo è una conseguenza diretta del sostanziale mancato avvio di un dialogo e discussione pubblica e ognuna delle due comunità coinvolte ha consolidato delle sue pratiche memoriali pubbliche che non comunicano e sono in concorrenza. E non potrebbe essere altrimenti perché la situazione, a quasi trent’anni dal genocidio, è che siamo molto lontani dall’avvio di un dialogo e di una discussione pubblica rispetto alle memorie di guerra. L’attuale amministrazione municipale serbo-bosniaca di Srebrenica, in linea di continuità con il discorso pubblico delle élite politiche al governo, è dichiaratamente negazionista rispetto al genocidio. Ed è evidente la volontà da parte dei serbo-bosniaci negazionsti di cancellare le tracce, i luoghi della storia e di risemantizzare, cambiandone il significato, luoghi fondamentali per comprendere quanto accaduto a Srebrenica fino al genocidio.

Altrettanto, durante i numerosi viaggi di conoscenza e formazione effettuati nell’ultimo decennio con giovani da tutta Italia, è emersa la necessità di avere dei supporti multimediali per mettere in condizione i partecipanti di ricostruirsi un background visuale-cognitivo per comprendere meglio le dinamiche e gli sviluppi della guerra e di come si è arrivati al genocidio del luglio 1995.

Inoltre abbiamo rilevato la difficoltà per i serbo-bosniaci, specialmente per le giovani generazioni, a causa delle pressioni sociali rispetto al negazionismo del genocidio, che costituisce il mainstream narrativo identitario-costitutivo del loro gruppo etno-nazionale, di entrare fisicamente al Memoriale di Srebrenica per conoscere la cosiddetta “storia dell’altro”, che non vuol dire essere costretti a cambiare la propria opinione, ma almeno prendere atto che esiste un’altra versione rispetto a quella del tuo gruppo etno-nazionale e quindi forse aggiungere complessità alla lettura di quanto realmente accaduto durante la guerra. Una app per telefono cellulare potrebbe facilitare la fruizione in maniera privata, fuori dal controllo e dallo stigma di gruppo, della “storia dell’altro”, e contribuire a implementare la discussione pubblica sulla/e memoria/e di guerra, che altrimenti rimangono blindate nei compartimenti stagni delle narrative in conflitto.

Poi, rispetto al negazionismo del genocidio, è un meccanismo comprensibile. Innanzitutto, fa parte integrante dei cosiddetti Ten stages of genocide e poi è un meccanismo di autodifesa individuale e di gruppo. Chi ammetterebbe di aver commesso un crimine di questa portata o che in nome del gruppo nazionale a cui appartiene è stata commessa questa atrocità? Ammetterlo significherebbe ammettere che l’ideologia fondativa di quella che poi è diventata la Republika Srpska era criminale e che questa entità territoriale, riconosciuta dalla comunità internazionale con l’Accordo di Dayton, è fondata sui crimini di guerra, sugli stupri etnici di massa, sulle fosse comuni e sul genocidio.

A ottobre, tutti i cittadini della Bosnia saranno chiamati alle urne in quelle che si prospettano essere le elezioni più tese e complicate degli ultimi anni. Credi che le Commemorazioni dell’11 luglio possano essere un trampolino di lancio per una campagna elettorale inevitabilmente basata su continue polemiche e divisioni?

Questo succede dalla fine della guerra ogni due anni, perché a cadenza biennale in Bosnia Erzegovina si intersecano i cicli quadriennali delle elezioni politiche (nazionali) e amministrative (comunali) e possiamo dire che le campagne elettorali si susseguono senza soluzione di continuità. Srebrenica ovviamente è sotto i riflettori e specialmente intorno alle commemorazioni dell’11 luglio le memorie e le tragedie di guerra vengono usate dalle propagande politiche come delle clave durante le campagne elettorali. Quindi niente di nuovo sotto il cielo di Srebrenica.

Un elemento di novità sono le tensioni di contesto locale e internazionale. Mi riferisco alla crisi istituzionale bosniaca e alla guerra russo-ucraina. Rispetto al contesto locale, i rappresentanti (nazionalisti) di due dei tre popoli costitutivi bosniaco-erzegovesi, ovvero i croati e i serbi, dall’estate scorsa, per motivi diversi hanno bloccato le istituzioni statali, minacciando la secessione, reclamando la costituzione di una terza entità, paventando il ricorso alla forza per difendere i propri interessi nazionali, provocando forti tensioni interne e la mobilitazione della diplomazia internazionale per cercare di governare la crisi a suon di sanzioni e altri strumenti persuasivi. La guerra russo-ucraina ha polarizzato l’opinione pubblica bosniaco-erzegovese e la leadership nazionalista serbo-bosniaca ha potenziato il discorso pubblico sulla difesa della serbitudine e degli interessi territoriali del popolo serbo.

Oggi, in centro a Srebrenica, a pochi giorni dall’inizio delle commemorazioni delle vittime del genocidio, è apparso un enorme cartellone che ritrae Milorad Dodik, membro serbo della Presidenza statale, che stringe la mano a Vladimir Putin. La scritta recita: “Custodi dell’ortodossia”.

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    Osservatorio Balcani Caucaso
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    Quando le povertà dei padri e delle madri ricadono sui figli e sulle figlie. In Italia il titolo di studio dei genitori condiziona le opportunità di di vita dei minori. La povertà educativa è diventata di fatto ereditaria. Sono gli ultimi dati dell’Istat a raccontare questa ingiustizia. Il 34% dei figli di genitori con un titolo di studio inferiore o uguale alla licenza media vive in condizione di “deprivazione materiale e sociale”. La percentuale crolla al 3% se i genitori sono laureati. L'ereditarietà della povertà educativa è anche un tradimento di un principio fondante della Repubblica. L’articolo 3 della nostra Costituzione, la seconda parte, assegna un compito preciso allo stato, e cioè quello di “rimuovere gli ostacoli” che limitano di fatto l’uguaglianza tra i cittadini. Un compito evidentemente non svolto, vista la permanenza della disuguaglianza. Pubblica ha ospitato oggi la sociologa Chiara Saraceno.

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