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Nusaybin, la frontiera in guerra/ IL REPORTAGE


Il quartiere di Rifat, nella città di Nusaybin, è un campo di battaglia.

Siamo nel sud-est della Turchia, a ridosso del confine siriano. Il filo spinato che segna la frontiera è attaccato al centro abitato. Siamo praticamente in Siria. Dall’altra parte la città prende il nome di Qamishli. Questa è una zona curda. Nusaybin è una roccaforte del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Qamishli, invece, è sotto il controllo delle Unità di Protezione Popolare (YPG), uno dei tanti attori della guerra siriana. Ma il confine è praticamente virtuale, PKK e YPG sono quasi la stessa cosa.

Ai primi di ottobre a Rifat c’è stata una dura battaglia tra esercito turco e Movimento Giovanile Patriottico e Rivoluzionario (YDG-H), l’ala giovanile del PKK. Sei giorni di scontri, i cui segni sono ancora molto evidenti. Ai quattro ingressi di Rifat una lunga serie di barricate in pietra. I ragazzini le hanno costruite con i mattoncini della pavimentazione stradale. Spesso tra una barricata e l’altra sono stati scavati dei fossati. Diversi edifici hanno i segni delle mitragliatrici e dei colpi di mortaio. Alcune case sono state distrutte, molti negozi sono bruciati. Durante la nostra visita i miliziani del YDG-H non si fanno vedere, ma controllano tutta la zona.

 

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Strada di Nusaybin

Per poter entrare nel quartiere abbiamo chiesto il permesso proprio a loro. Appena entrati ci accoglie un gruppo di bambini che ci accompagnerà per tutta la visita. “Sono i bambini della guerra – ci sussurra una signora – sono un po’ esuberanti, ma bisogna capirli”. La gente di Rifat è contenta di avere ospiti stranieri. Finalmente qualcuno parlerà di loro. Lokman Sonmez ci ferma davanti a un portone crivellato di colpi. “Mio padre è stato ucciso proprio qua, sulla porta di casa sua, era la notte tre il due e il tre di ottobre. Si era affacciato per vedere cosa stesse succedendo in strada. In quel momento l’esercito turco ha aperto il fuoco. Aveva 65 anni. Mio padre – prosegue Lokman Sonmez con le lacrime agli occhi – è stato ucciso dallo stato, è stato ucciso dall’AKP, il partito del presidente Erdogan”.

Domenica in Turchia ci saranno le elezioni politiche anticipate, volute proprio dal partito di governo che dopo le elezioni dello scorso giugno non è stato capace di formare una maggioranza. A creare problemi all’AKP, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo al potere da oltre dieci anni, è stato proprio il Partito Democratico del Popolo (HDP), una formazione filo-curda che a giugno era riuscita a portare in parlamento ottanta rappresentanti, impedendo all’AKP di ottenere la maggioranza assoluta. “Ci sparano per una manciata di voti – ci dice ancora Lokman Sonmez – per questo mio padre è stato ammazzato”.

 

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Strada di Nusaybin

Una signora si fa largo tra i bambini e ci chiede di seguirla fino al suo negozio. Camminiamo per un centinaio di metri in mezzo alle macerie. In realtà il negozio non c’è più. Sono rimasti dei mobili bruciati e delle sedie distrutte. Le vetrine completamente in frantumi. Sulla parete laterale un grosso buco fatto da un colpo di mortaio. “Questo era il mio internet caffè – ci racconta Bilmez Ari – per fortuna è stato colpito durante la notte, quando eravamo chiusi. Ma ricordo ancora quella notte. I miei bimbi erano terrorizzati. Ci vogliono spaventare, ma non ci riusciranno”.

Su una saracinesca c’è scritto “voi ci combattete sulle montagne, noi vi combattiamo nelle città”. In effetti dallo scorso luglio, quando è ripreso il conflitto tra esercito turco e comunità curda, le operazioni militari hanno coinvolto anche diversi centri urbani. Prima del 2013, quando lo storico leader del PKK, Abdullah Ocalan, dichiarò il cessate il fuoco dal carcere, i combattimenti e i bombardamenti dell’aviazione turca si limitavano quasi esclusivamente alle zone di montagna verso il confine iracheno.

Prima di uscire da Firat chiediamo a un signore anziano come vede il futuro dei suoi nipoti. La risposta ci coglie di sorpresa: “non possiamo che essere ottimisti – ci dice Ismail Sengu. Anche se la vita di tutti i giorni è sempre più complicata e lo Stato non ci tratta come esseri umani, dobbiamo essere ottimisti, e abbiamo fiducia nell’HDP”. Ismail Sengu ci saluta davanti a una delle tante barricate di pietra. Con un gesto della mano ci fa capire che le hanno costruite loro, gli abitanti di Firat, non il PKK. Come in tutti i conflitti di questo tipo però il confine tra il gruppo armato e la popolazione civile è molto incerto. Infatti il supporto al Partito dei Lavoratori del Kurdistan sta aumentando.

I bambini ci accompagnano sull’ultima barricata, dove l’accesso a Firat è chiuso da un grosso tir messo di traverso. Continuano a sorridere e chiedono di fargli un’ultima foto. Poi corrono indietro e continuano a giocare alla guerra.

  • Autore articolo
    Emanuele Valenti
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