
“Vogliamo rivedere nostra madre e nostro padre, non li vediamo da 15 mesi. Abbiamo aspettato questo momento per tanto tempo, ora finalmente andiamo”.
Ahmad Odas sorride, mentre cammina insieme ai fratelli lungo la strada costiera che collega il centro della striscia di Gaza con il nord. Avrà si e no 12 anni. Insieme a lui, ci sono decine di migliaia di persone. Sono partite all’alba, verso le loro case o verso ciò che ne rimane, verso pezzi di famiglia che non vedono da mesi, verso le loro città, martoriate da una guerra che nel nord ha colpito ancora più forte. Ci sono ragazzi e ragazze che trascinano grandi sacchi di plastica, anziani in sedie a rotelle, uomini con le stampelle. I bambini più piccoli stanno in braccio ai loro genitori, o sulle spalle, altri su passeggini improvvisati. Ci sono biciclette, carretti, carriole. Qualcuno trascina dei materassi o delle coperte, tutto quello che hanno. Ogni tanto spunta un gatto o un cagnolino, che le famiglie hanno portato con loro nella perenne fuga che è stato l’anno passato. E’ un esodo impressionante, faticoso, doloroso e gioioso insieme. Sui volti di quella fiumana umana, che marcia in mezzo alle macerie, si legge l’eccitazione, l’emozione, la gioia di tornare a casa. Qualcuno canta, si scattano fotografie, ci si abbraccia con chi si credeva perduto e si è invece ritrovato lungo il cammino.
Ahmad Odas sorride, mentre cammina insieme ai fratelli lungo la strada costiera che collega il centro della striscia di Gaza con il nord. Avrà si e no 12 anni. Insieme a lui, ci sono decine di migliaia di persone. Sono partite all’alba, verso le loro case o verso ciò che ne rimane, verso pezzi di famiglia che non vedono da mesi, verso le loro città, martoriate da una guerra che nel nord ha colpito ancora più forte. Ci sono ragazzi e ragazze che trascinano grandi sacchi di plastica, anziani in sedie a rotelle, uomini con le stampelle. I bambini più piccoli stanno in braccio ai loro genitori, o sulle spalle, altri su passeggini improvvisati. Ci sono biciclette, carretti, carriole. Qualcuno trascina dei materassi o delle coperte, tutto quello che hanno. Ogni tanto spunta un gatto o un cagnolino, che le famiglie hanno portato con loro nella perenne fuga che è stato l’anno passato. E’ un esodo impressionante, faticoso, doloroso e gioioso insieme. Sui volti di quella fiumana umana, che marcia in mezzo alle macerie, si legge l’eccitazione, l’emozione, la gioia di tornare a casa. Qualcuno canta, si scattano fotografie, ci si abbraccia con chi si credeva perduto e si è invece ritrovato lungo il cammino.
“Siamo così felici”, dice Malak al-Haj Ahmed, 17 anni, mentre si scatta dei selfie con la sua famiglia lungo la strada. “Non c’è momento più gioioso del ritorno a casa”.
Insieme alla gioia, però, c’è anche la paura. Di ciò che troveranno una volta arrivati, e di ciò che non troveranno. Della distruzione, la desolazione, la morte. E soprattutto, del ritorno della guerra. “Qualunque cosa succeda – assicura un uomo diretto verso Jabalia – non lasceremo più la nostra casa”.