
“Ravensbruck era un campo di concentramento a 80 chilometri da Berlino, verso la Polonia, popolato solo da donne e bambini. Forse questo è proprio il motivo per il quale non è molto citato: essendo donne mi sembra giusto, no?”. Così, con il ricordo della beffa di essere destinata all’oblio, Mirella Stanzione, ex deportata spezzina di 88 anni, inizia il suo racconto di prigionia. Una narrazione difficile, che per sua stessa ammissione non fa volentieri, che inizia il 2 luglio 1944 a La Spezia. Le SS tedesche le piombano in casa e la arrestano insieme al fratello Auro, partigiano. “Che io e mia madre non avessimo partecipato attivamente alla Resistenza partigiana non aveva nessuna importanza: per il nazismo bastava che in famiglia uno solo li combattesse perché tutti gli altri componenti della famiglia fossero colpevoli”. Mirella aveva 17 anni.

Prima di giungere a Ravensbruck, in realtà, Mirella passa una lunga trafila di fermi: inviata al carcere di Villa Andreino di La Spezia, il 7 settembre viene spedita al carcere di Marassi a Genova, il 25 settembre al campo di smistamento di Bolzano e, infine, il 7 ottobre 1944 a Ravensbruck. Durante tutti questi spostamenti un unico, decisivo fattore le dà la forza di non mollare: la vicinanza di tante altre donne, amiche e parenti, che come lei stanno vivendo lo stesso, alle quali stringersi e appigliarsi nei momenti più difficili.
Quello stesso campo in cui, all’inizio, lei, sua mamma e le sue amiche sono costrette a fare un lavoro “che non te lo sto nemmeno a raccontare”. “Eravamo una decina – prosegue – ci siamo viste consegnare una pala e fatte mettere in cerchio: io dovevo prendere una palata di sabbia e la passavo a te che la passavi alla tua vicina con il risultato che quella sabbia tornava a me. Era un lavoro inutile ma che serviva a farci capire che qualunque cosa ci venisse chiesta noi dovevamo obbedire”.
La loro sorte passa poi alla Siemens, dove le donne, dotate di mani piccole e grande cura, dovevano equilibrare la spirale dei manometri prodotti nello stabilimento all’interno del lager per l’industria aeronautica.

Il campo viene liberato alla metà dell’aprile 1945 e per Mirella e sua mamma (le amiche, invece, verranno liberate dopo) inizia una nuova avventura: la marcia della morte verso Amburgo, da dove sarebbero state imbarcate su una nave da affondare nel Baltico. Fuggite alla sorveglianza delle SS durante un attacco aereo, madre e figlia riescono a nascondersi in un villaggio sino all’arrivo delle truppe sovietiche. Alla fine dell’ottobre 1945 le due donne rientrano in Italia via Brennero, quindi a Milano e poi a Genova.

Per circa sessant’anni Mirella non ha voluto raccontare a nessuno la sua esperienza: colpa dell’umiliazione subita per il fatto di essere donna e oppositore politico, che l’ha svuotata di ogni sentimento, di ogni attenzione. “Non so se è il caso di registrarlo su questa macchinetta… Io durante il periodo della deportazione sono entrata con un paio di mutandine e me le sono sempre tenute finché non sono uscita, non lavandole mai perché non avevo il ricambio. Ci puoi credere? Puoi pensare che io provassi disagio? Non provavo niente, è questa la tragedia. Era normale e non te ne rendevi nemmeno conto. Questo è il campo di concentramento”.