
In oltre tre anni di guerra Vladimir Putin è riuscito a tenere in mano quasi tutte le carte. Ha lasciato che l’Occidente provasse a indovinare la sua strategia, spesso con dei risultati non particolarmente brillanti.
L’Occidente, con tutte le sue divisioni, si è schierato al fianco dell’Ucraina e ha adottato una serie di sanzioni, anche importanti, contro la Russia.
L’impatto è stato però minimo. Per Mosca la maggior parte dei problemi – come la perdita di tanti uomini lungo la linea del fronte – deriva della sua stessa decisione di andare avanti con la guerra. Il Cremlino ha consolidato la sua presenza sul campo, ha occupato circa il 20% del territorio ucraino, e ha rafforzato la sua narrazione interna: la guerra è la risposta a una minaccia esterna, la nazione russa ne uscirà rafforzata. Il tutto, appunto, a carte coperte.
Poi è arrivato Trump. Da un lato il presidente americano ha riallacciato i rapporti con Mosca e riabilitato Putin come attore della comunità internazionale. Ma dall’altro ha chiesto la fine della guerra in tempi rapidi. Trump – lo sta dimostrando anche in altri dossier – vuole essere percepito come il leader potente che convince gli altri a fare la pace, o meglio a fare quello che secondo lui è più conveniente. Finora – dal ritorno di Trump alla Casa Bianca sono passati quasi 4 mesi – il presidente russo ha preso tempo. Dal punto di vista russo il fattore tempo – puntare sul logoramento del fronte avversario, allungare la guerra nella convinzione che gli altri cederanno – è uno degli elementi chiave per ottenere i risultati sperati.
Ma come dicevamo la Casa Bianca ha fretta. Da qui le ultime mosse del Cremlino, che continua a temporeggiare ma allo stesso tempo fa e dice comunque delle cose, con l’obiettivo di essere percepito a Washington come attore attivo, che vuole sul serio la fine della guerra, come ha detto ancora questo pomeriggio Peskov. Anzi, sempre su pressione americana, i russi devono ora valutare se accettare addirittura un incontro Putin – Zelensky. Il negoziato diretto con gli ucraini in Turchia giovedì prossimo lo aveva proposto lo stesso presidente russo, ma probabilmente immaginando, in assenza di una tregua, una risposta negativa da parte di Kyiv e in ogni caso non pensando a un vertice ai massimi livelli. L’ultimo risale al 2019, tre anni prima dell’invasione russa.
Il risultato – che Putin vada o non vada in Turchia, dove oltretutto potrebbe anche arrivare Trump – è che il presidente russo è ormai costretto a scoprire delle carte. Non tutte, ma alcune dovrà mostrarle. Il governo americano inizia a essere più scettico sulle reali intenzioni del Cremlino, ma gli sta ancora dando credito. Di fronte a Zelensky e nel caso allo stesso Trump, se sarà così, i russi non potranno continuare a giocare a carte coperte e a prendere tempo. Ci proveranno, ma Trump non vuole e dal suo punto di vista non può andare all’infinito.
Cosa succederà invece se Putin continuasse a tergiversare? Gli europei hanno già minacciato nuove sanzioni questa settimana in assenza di una tregua. Gli Stati Uniti non proprio, ma il termine sanzioni è sempre più ricorrente. Detto tutto questo c’è ovviamente l’abisso che divide le posizioni di partenza, in un eventuale negoziato, di russi e ucraini. L’unico risultato possibile, seppur difficilissimo da raggiungere, è un’eventuale tregua, temporanea. Un’intesa politica sul futuro dell’Ucraina sembra una chimera.