Levante è un termine che ha preso origine dal latino levar, e che è entrato nelle lingue romanze – levante in italiano, spagnolo e portoghese, levant in francese – ma che è stato adottato anche dall’inglese e dal tedesco: si diffuse in epoca medioevale in particolare per indicare l’arco di regioni che insistevano sul Mediterraneo fra la Grecia e l’attuale Egitto, cioè in pratica la parte del Mediterraneo che stava ad oriente dalla prospettiva di una potenza marinara come Venezia. Riferito al bacino del Mediterraneo, il termine è stato via via utilizzato con diversi significati: in un senso più stretto è servito ad indicare le aree corrispondenti a Siria, Libano, Giordania, Palestina storica e a parte della Turchia. Oggi si tende a parlare di Medio Oriente (che poi per noi sarebbe più propriamente Vicino Oriente), ma Medio Oriente è soprattutto una espressione geografica generale e di copertura più ampia: è interessante fare caso al fatto che Levante è un termine ancora correntemente utilizzato da archeologi e storici che studiano preistoria, mondo antico e medioevo del Mediterraneo in riferimento a Siria, Libano, Giordania e Palestina nel loro insieme, mentre è ormai desueto per indicare nel loro complesso questi paesi oggi. Né, in questa accezione, il termine Levante è stato sostituito da un altro: è come se anche sul piano della denominazione si volesse far dimenticare la profonda unitarietà storica, culturale, antropologica di questa area. Questa riflessione ci viene sollecitata da Fake Lines: Sono Levant, una compilation, pubblicata in tre Lp o in digitale, che raccoglie 36 brani di un ampio ventaglio di generi – musica sperimentale, folk, rock, hip hop, ambient ed elettronica – di artisti della regione del Levante, più ospiti da Tunisia, Algeria, Irak, Turchia, Francia, Venezuela, Italia e India. Fra gli artisti coinvolti, il palestinese canadese John Kameel Farah, e il libanese Zeid Hamdan, che assieme a Yasmine Hamdan diede vita allo storico gruppo electro-pop Soap Kills. Questa iniziativa discografica nasce non solo dal desiderio di reagire al genocidio di Gaza, ma anche dall’intenzione di richiamare l’attenzione sull’artificiale divisione che la regione del Levante ha subito e di valorizzare un’identità condivisa sviluppando collaborazioni e solidarietà artistiche. Le Fake Lines del titolo sono le “false linee” tracciate dai colonizzatori, dopo la fine dell’impero ottomano, per dividere in entità separate un mondo che aveva fortissimi elementi comuni. Un progetto imperiale deliberato – secondo i promotori di questa compilation – mirante ad indebolire la regione dividendola in pseudo-stati privi di reale sovranità. Stati non in grado di confrontarsi con lo stato di Israele, creato occupando buona parte della Palestina storica: è questa debolezza storicamente creata ad arte a consentire il genocidio a Gaza. Gran parte del ricavato di Fake Lines sarà destinato a finanziare organizzazioni di base che a Gaza lavorano a sostenere le attività agricole e la sovranità alimentare della striscia. Fake Lines è pubblicato dalla etichetta discografica non-profit dallo stesso nome. Il lavoro è dedicato al musicista Hamza Abu Qenas, ucciso dagli israeliani, che hanno colpito la sua casa nella striscia di Gaza nell’ottobre 2024; nel suo ultimo post sui social, Hamza scherzava con i suoi amici dicendo: “se faranno di noi dei martiri fate una canzone per noi”.


