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Congo, primi casi di coronavirus dopo la fine dell’epidemia di Ebola

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Cinque giorni dopo aver finalmente debellato l’ultima epidemia di Ebola, nella Repubblica Democratica del Congo è arrivato il primo caso di coronavirus COVID-19, registrato l’11 marzo scorso a Kinshasa, capitale del Paese e terza area metropolitana più grande dell’Africa.

Nelle ultime ore, mentre i dati ufficiali parlano di 18 casi confermati di coronavirus COVID-19, il presidente Felix Tshisekedi ha disposto la chiusura delle scuole, dei luoghi di culto e di bar e ristoranti a Kinshasa e nelle città più grandi del Congo. Sarà sufficiente a limitare la diffusione dell’epidemia di coronavirus in un Paese neanche lontanamente attrezzato ad affrontare una situazione di emergenza come quella che si sta vedendo in altri Paesi del Mondo?

Ne abbiamo parlato con Nicolò Carcano, responsabile progetti AVSI nella Repubblica Democratica del Congo, che attualmente si trova nella città di Goma, a circa due ore di aereo da Kinshasa. L’intervista di Chawki Senouci ad Esteri.

La situazione in Congo dopo i primi casi di coronavirus è di paura. La paura della fine di una grande speranza. Dal 1° agosto 2018 al 6 marzo 2020 abbiamo affrontato una delle più brutte epidemie di Ebola degli ultimi anni con più di 3.500 morti. Il 6 marzo è stato dimesso dall’ospedale l’ultimo paziente di Ebola, c’è stata una grande festa di medici e infermieri e pensavamo di esserci tolti un peso di qualche tonnellata. La tranquillità è durata cinque giorni, perché l’11 marzo è arrivato a Kinshasa, a circa due ore e mezzo d’aereo da dove mi trovo io a Goma, il primo caso di coronavirus COVID-19 in Congo, portato presumibilmente da un congolese al rientro dal Belgio o dalla Francia.
Inizialmente, come sempre, il caso qui è stato preso sottogamba e non c’è stata nessuna particolare attenzione. Ora, però, conoscendo come il virus si è evoluto nella maggior parte dei Paesi che ha toccato, primo fra tutti il nostro, c’è una grandissima paura. Le persone qui si muovono moltissimo, la popolazione locale accusa gli espatriati bianchi di essere gli untori della situazione e di aver portato qui il virus.
Il Congo ha uno dei tassi di corruzione più alti che io abbia mai visto – e sono quasi 16 anni che faccio questo lavoro – e la popolazione è sempre convinta che le problematiche vengano portate dall’esterno così che il governo, le autorità politiche e i bianchi possano fare i soldi sulla loro pelle e sulla loro salute. È una convinzione che deriva da anni di malgoverno, sia nazionale che provinciale.
Se per l’Ebola in qualche modo non eravamo un bersaglio diretto, adesso abbiamo due rischi. Il primo è quello di essere un bersaglio diretto e il secondo è quello di essere coinvolti personalmente da questa epidemia. L’Ebola è indiscutibilmente più pericolosa, come tasso di mortalità eravamo intorno all’80%, ma è più difficile da trasmettere perché occorre un contatto fisico tra un malato di Ebola e un’altra persona. Il darsi la mano senza poi lavarsela immediatamente era una possibilità di contagio immediato. E, invece, come sapete meglio di me, questo coronavirus è molto più volatile ed ha una diffusione simile a quella dell’influenza. Qui è un disastro. In Africa non si può fare il telelavoro, non si può chiedere alla popolazione locale di stare in casa perché nessuno ha la possibilità di fare scorte di cibo. Quella che era una paura per l’Ebola, per il coronavirus diventa almeno dieci volte più grande.
La situazione mondiale ci dice anche che il rischio per noi è quello di rimanere bloccati qui in Congo, perché ad un certo punto chiuderanno tutti i voli aerei e i collegamenti con gli altri Paesi e il sistema sanitario di questo Paese non ci permette di stare tranquilli. Credo che nel posto in cui mi trovo ora ci siano appena due posti letto di terapia intensiva.

Le autorità hanno deciso di chiudere i locali, i ristoranti e i bar a Kinshasa. Secondo te queste misure potranno rivelarsi efficaci?

Sarà molto difficile applicare queste misure. Se abbiamo ben capito le misure sono estese a tutte le grandi città del Congo, anche Goma da cui vi sto parlando, e tutte le capitali provinciali. È qualcosa, ma il problema è culturale. Qui il 99% delle persone deve uscire di casa per poter andare a cercare un lavoretto di un giorno con cui poter avere quei due soldi che servono per comprare qualcosa da mangiare. Chiudere bar e ristoranti è sicuramente un tentativo di emulazione rispetto a quanto fatto dai Paesi europei e dal vicino Ruanda, ma purtroppo non è sufficiente. Da questa mattina hanno anche chiuso tutte le scuole, gli istituti di istruzione e anche i luoghi di culto, una cosa che non credo abbia un precedente in Africa.
Tutte queste misure non sono state prese per l’Ebola e viene da chiedersi perché siano state prese adesso: si tratta soltanto di emulazione delle politiche altrui o c’è la speranza di bloccare quello che sarebbe un contagio catastrofico in questo Paese?
È un’idea, ma non è assolutamente sufficiente.

Quello che è stato fatto per sradicare l’Ebola potrebbe servire per contrastare il coronavirus?

Penso proprio di sì ed è forse l’unica speranza che è rimasta anche a noi che siamo rimasti qui a lavorare per conto di AVSI. Possiamo sperare che ci sia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità unitamente alle organizzazioni non governative come la Croce Rossa Internazionale o International Medical Corps per cercare di aiutare il ministero della Salute del Congo a contrastare questo nuovo mostro perché altrimenti il Ministero da solo, con le sue strutture provinciali, cittadine e nei villaggi non sarà mai e poi mai sufficiente.
Per contrastare l’Ebola, e pare che alla fine possiamo dire di avercela fatta, la Banca Mondiale e le più grandi agenzie di cooperazione del Mondo hanno messo sul piatto qualcosa come 500 milioni di dollari. Quello che noi da qui ci chiediamo è se questo impegno potrà essere lo stesso, visto che tutti i Paesi più importanti sono anche le vittime dirette di questa epidemia. Non sappiamo quindi se si schiereranno come hanno fatto per l’Ebola a favore dei Paesi che ne hanno maggiore bisogno come la Repubblica Democratica del Congo.

Foto dalla pagina Facebook di AVSI CONGO

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