
Luisa Morgantini, storica attivista per la causa palestinese, sindacalista e politica, eurodeputata di Rifondazione Comunista, è stata grande amica e compagna di militanza di Ali Rashid, scomparso ieri all’età di 72 anni. Con lei abbiamo ripercorso la storia e le idee di Rashid, in nome del popolo palestinese e del dialogo per arrivare alla pace. Le chiediamo anzitutto un ricordo del loro primo incontro. L’intervista di Alessandro Principe.
“Fu lui a venire alla Flm (federazione lavoratori metalmeccanici) di Milano quando lavoravo in segreteria. Dopo il massacro di Sabra e Shatila, che per me fu la prima volta in cui vidi effettivamente dei palestinesi, venne e mi disse: ‘Dobbiamo fare qualcosa, dovete stare con noi’“.
Com’era Ali Rashid?
Era un giovane bellissimo, fantastico. E molto presente e lucido. Non era solo dolce; in alcune situazioni è stato anche molto duro. Lo ricordo perché poi mi portò lui, per la prima volta, a incontrare Arafat e tutto il Consiglio Nazionale Palestinese che, dopo la sconfitta e l’uscita da Beirut per Tunisi, si riunì ad Amman. Fu sempre lui a farmi conoscere Abu Jihad e molti leader dell’Olp a Tunisi in quel periodo. Ricordo la sua sofferenza e il suo amore per Abu Jihad quando quest’ultimo fu assassinato a Tunisi. Poi fu lui a mandarci, insieme a tantissimi italiani (eravamo nel 65 prima dello scoppio della prima Intifada), in un villaggio palestinese in Israele, che era Tayibe nel Triangolo, dove ancora oggi ci sono molti palestinesi, come Tira o Um al-Fahm. Andammo lì e costruimmo un asilo insieme alla Lega per la liberazione dei popoli di Milano.
Ha anche ricordi personali?
Certo, molto personali, perché quando si trasferì a Roma e anch’io mi trasferii, abitò a casa mia per parecchio tempo. Questo perché si era sposato con una ragazza molto determinata a sposarlo! L’avevamo incontrata insieme a Venezia e lei mi disse: “Ali mi piace troppo!”. E lo “perseguitò” finché non si sposarono ed ebbero una figlia meravigliosa, Aida, che però era gelosa di me e diceva: “Ah, ma tu stai sempre con il mio papà! E la mia mamma?”. Ma tra me e Ali non c’è mai stato nulla di sentimentale se non questa condivisione dell’amore per la libertà e per la giustizia. Ali ha portato avanti questa battaglia ed è morto in un momento veramente tragico per la Palestina.
Cosa ti diceva in questo periodo, con quello che sta accadendo a Gaza?
Mah guarda, eravamo piuttosto reticenti a parlare tra di noi che sappiamo e conosciamo. È molto difficile, ci sentiamo annichiliti di fronte a questa situazione, ma determinati ad andare avanti, a continuare a parlare ea far conoscere la Palestina, la verità. Poi Ali era di Lifta, questo villaggio che conosco benissimo e che non è mai stato distrutto completamente. È strano, non l’abbiamo mai capito, ma si è creato un forte movimento sia di palestinesi che di israeliani per difendere Lifta, perché è un ricordo e la memoria di chi erano i nativi. Quindi abbiamo parlato anche di Lifta, sì, e sono sicura che riuscirò a tornare a Lifta insieme ai nostri amici Nile, Iman e Jacob. Pianteremo degli alberi per lui in quel villaggio che non è mai stato distrutto e che ricorda la Naqba (la cacciata dei palestinesi, ndr) . E oggi la Naqba continua.
Ali Rashid è stato un uomo di dialogo. In un momento come questo, si sentiva in qualche modo sconfitto oppure aveva ancora la speranza che quel dialogo sia possibile?
Beh, non si tratta di dialogo, ne abbiamo sempre discusso. Si tratta di co-resistenza, perché non era un’apertura ai leader, ma un’apertura a chi dentro Israele resiste e combatte insieme ai palestinesi per liberare da una parte Israele dal suo sionismo, dalla sua violenza, dalla volontà di possedere di quella terra, e chi in Palestina, ma anche nella diaspora, pensa che sia giusto riuscire a coesistere, ma nella giustizia per tutti.
Quindi non è il dialogo, ma è la capacità di capire anche l’altro e di non essere disumanizzanti come Israele, che non riconosce l’altro. Ali riconosceva l’altro. Come del resto hanno fatto tanti grandi palestinesi come Edward Said e Mahmoud Darwish, che continuava a dire: “Noi siamo obbligati alla speranza”. Quindi sì, sconfitta, ma niente lusso nel disperarsi perché per noi sarebbe un lusso, e anche per Ali. Quindi, andavamo avanti, si va avanti pensando che è giusto resistere con la parola e con le azioni a una violenza ea un’ingiustizia subita dai palestinesi.