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Il virus è più debole? La risposta del prof. Galli

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A cinque mesi dal paziente 1, Massimo Galli, direttore del reparto malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano, fa il punto sul virus e su cosa manca: “Il convitato di pietra sono i test per dare certezze ai cittadini“. È vero che il virus è più debole?

L’intervista di Claudio Jampaglia a Prisma.

Cominciamo col dire che se voi prendete 100 persone che contraggono l’infezione da coronavirus, 10 di loro avranno necessità di un ricovero ospedaliero e avranno un’infezione pericolosa per la vita. Gli altri 90 hanno forme decisamente più lievi, qualcuno addirittura – e non abbiamo ancora capito quanti – senza alcun sintomo. Questo non vuol dire che il virus è più debole, ma che semplicemente l’ospite è diverso. Da ospite a ospite il virus si comporta diversamente e ha diverse opportunità di portare ad una malattia conclamata piuttosto che ad una malattia di grado decisamente più lieve.
Detto questo, verso la coda di una grande epidemia e dopo un periodo terribile per certi versi, ma molto efficiente nei risultati ottenuti, è abbastanza plausibile, se non addirittura evidente, che il tipo di malati che vediamo ora non sono quelli della prima ora, ma sono persone che hanno avuto dei quadri meno gravi e vengono ospedalizzati per il fatto che alcuni problemi persistono e meritano una valutazione.
Quando una persona si infetta può rimanere infettata, ormai lo sappiamo, per un periodo decisamente lungo. Durante il periodo in cui viene infettata è verosimile e plausibile, anche se non è ancora certo e documentato in maniera inoppugnabile, che il suo sistema immunitario inizia a combattere il virus e gradualmente impedisca al virus di replicare come ha replicato all’inizio e di danneggiare le cellule come le ha danneggiate all’inizio in vari distretti corporei e soprattutto nel polmone. In questo processo è altamente verosimile che si riduca l’attività replicativa del virus e che verso la fine il virus, la cui presenza viene documentata col famigerato tampone, non sia più un virus completo, ma un virus non in grado di essere trasmesso e di dare infezione a terze persone.
Questo è l’elemento per cui siamo abbastanza confidenti e auspichiamo che dopo i sacrifici fatti, oggi, nonostante le precauzioni che vengono prese non vengono prese in maniera inoppugnabile, ci siano meno probabilità di vedere ripartire il tutto in maniera significativa.
Il timore di singoli focolai ce l’abbiamo e i singoli focolai si sono anche già manifestati. Ce n’è stato uno al San Raffaele Pisana di Roma, abbiamo avuto un episodio al Niguarda e potremmo averne altri. Per questo vale ovviamente la pena di avere il massimo dell’attenzione e della vigilanza.

Voi state conducendo diversi studi epidemiologici. A che punto siamo?

La risposta degli italiani al distanziamento sociale e al lockdown è stata una risposta eccezionalmente buona e incredibilmente disciplinata. Parlo della grande maggioranza dei casi. Ora la risposta sta prendendo delle derive abbastanza pericolose, ma devo anche dire che agli italiani è stato dato l’intero peso delle misure di prevenzione. È abbastanza facile dire alle persone “comportati così” e attenderti che da queste risposte arrivi la soluzione del problema. In tutto questo la cosa che è mancata in maniera clamorosa è stata la possibilità di avere più test e la possibilità di avere più certezze rispetto alle condizioni di salute.
Questo è un aspetto di importanza fondamentale e non è così impossibile, sempre che tu non ti ostini, magari finendo anche in grane giudiziarie, a fare delle scelte che tutto sommato potrebbero essere fondamentalmente discutibili.
Se l’intera popolazione di Castiglione d’Adda ha deciso di partecipare ad uno studio ed è venuta a porgerti il dito affinché tu potessi accertare un eventuale contatto col COVID, beh c’è da pensare che probabilmente gran parte della popolazione lombarda sarebbe disponibile a fare altrettanto. È così impossibile prospettare la possibilità di organizzarsi affinché nell’ambito della ripresa delle attività produttive di alcune aziende e nell’ambito di contesti particolari all’interno della popolazione in generale tu possa garantire un monitoraggio accurato nel tempo? Francamente credo che questo sia un approccio ragionevole.

Perché non si fa?

Credo che nei confronti dei cosiddetti test pungi dito, che sono dei test rapidi di particolare utilità, ci sia un atteggiamento fondamentalmente negativo che nasce da una certa mitologia di inefficienza e attendibilità. L’idea di mettere 1.000 persone in fila per fare un test avendo una risposta in 10 minuti è sostenibile, ma fare altrettanto con un test da prelievo venoso è qualcosa di più impegnativo.
Il primo screening fatto con il test pungi dito si è dimostrato assolutamente affidabile e procedere in questa direzione può essere una buona modalità d’approccio. Molte aziende, al di là dell’esperienza con ATM che stiamo chiudendo in questi giorni e di cui renderemo pubblici i dati, si stanno orientandosi in questa direzione, così come, giusto per garantirsi anche nel tempo una valutazione periodica della situazione, faremo con la prosecuzione della rilevazione nei comuni per avere informazioni molto importanti sulla diffusione dell’infezione, sulla modalità di diffusione tra le classi di età e nell’ambito dei contesti familiari o sociali.
Tutto questo credo che aiuterà o aiuterebbe molto, se di questi dati si facesse tesoro, anche nel malaugurato caso di trovarci di nuovo in ballo con questa storia.

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