Approfondimenti

La maggioranza divisa sul presidenzialismo in salsa meloniana, le dimissioni forzate di Carlo Fuortes e le altre notizie della giornata

Il racconto della giornata di lunedì 8 maggio 2023 con le notizie principali del giornale radio delle 19.30. Sul presidenzialismo, Meloni finge di aprire il dialogo con l’opposizione, ma in realtà è pronta ad andare avanti da sola anche se la maggioranza non è compatta. La destra continua la sua corsa alle poltrone puntando ai vertici della Rai. L’ultima ondata di bombardamenti russi in Ucraina ha colpito un deposito della Croce Rossa a Odessa. La rappresentanza dell’Unione in Israele ha annullato l’incontro previsto per domani per non incontrare il ministro di estrema destra Ben Gvir.

Meloni e Schlein verso il primo faccia a faccia sul presidenzialismo

(di Anna Bredice)
Il tavolo delle riforme è un po’ fumo negli occhi e anche un alibi per dire che se le cose non funzionano la colpa è del sistema e delle regole che non concedono più poteri. Questa è stata una parte della riflessione che nel partito democratico si è fatta oggi in vista dell’incontro che avverrà domani nel tardo pomeriggio, il primo faccia a faccia tra Meloni e Schlein. La tesi dell’alibi, quindi, ma non è solo questo, perché nel corso delle riunioni avvenute oggi è emersa anche la consapevolezza che l’idea “dell’uomo forte al comando”, di un principio di autoritarismo fondato sul presidenzialismo è una delle bandiere della destra, uno dei suoi tratti identitari. Per questo domani il Pd dirà che le priorità sono altre, ma porterà sul tavolo la sua proposta, non si tirerà indietro, proprio per contrastare in Parlamento il progetto di Meloni. E la proposta è quella del Cancellierato, maggiori poteri al Presidente del Consiglio, accompagnato dalla sfiducia costruttiva e dal potere di nomina dei ministri. Ma dirà no al Premierato, l’elezione del Presidente del Consiglio, ipotesi che invece piace al Terzo polo. Sarebbe per il Pd una diminuzione dei poteri del Capo dello Stato, una pericolosa fuga in avanti. Insieme a questo, il Pd chiederà che venga tolto dal tavolo il progetto di autonomia a cui sta lavorando Calderoli. Per Elly Schlein che oggi ha visto prima la segreteria e poi i componenti delle commissioni competenti, proprio per avere tutto il partito con sé, non può essere possibile alcuna partecipazione ad una Bicamerale, il confronto sarà in Parlamento, con la speranza che la destra non abbia i due terzi dei voti e che sia necessario il referendum.

Gli ostacoli sulla strada del presidenzialismo in salsa meloniana

(di Michele Migone)
La Destra andrà avanti da sola. L’opposizione verrà consultata, ma, in sostanza, solo pro forma. Lo ha detto con chiarezza il ministro per i rapporti con il parlamento Luca Ciriani alla vigilia del vertice sulle riforme. Più che una partita a scacchi, Giorgia Meloni sembra voler giocare una mano di poker, pensando di avere dalla sua le carte giuste. Ha già in mente dove vuole andare: le riforme si faranno a colpi di maggioranza e di referendum confermativi. Ma, il percorso non sarà facile. Perché la presidente del consiglio non deve fronteggiare solo alle opposizioni; deve essere anche in grado di guidare una maggioranza poco coesa anche su questo fronte. Le posizioni sono tre: Fratelli d’Italia vuole il presidenzialismo, Forza Italia il Premierato, la Lega il Presidenzialismo, ma solo se prima viene approvata la autonomia differenziata. Il governo ha dato il via libera alla riforma del ministro Calderoli, ma con la scarsa convinzione della stessa premier: Salvini insisteva di averla prima delle ultime elezioni regionali e Giorgia Meloni alla fine ha ceduto, ma Fratelli d’Italia la vede come il fumo negli occhi. Queste divisioni sono un importante ostacolo sulla strada del presidenzialismo in salsa meloniana. A cui si devono aggiungere altri scogli: in parlamento non ci sono i numeri, neppure, e in questo momento appare difficile, se alla maggioranza si dovesse unire un frazionato Terzo Polo. Se però veramente si dovesse arrivare alla approvazione in doppia lettura a maggioranza semplice del cambiamento della forma di governo, sarebbero quindi necessari i referendum confermativi. I sondaggi dicono che due italiani su tre sono con Sergio Mattarella (per lo stile con cui interpreta il ruolo), ma, per paradosso, cresce la voglia di elezione diretta del presidente della repubblica. La Destra cercherà quindi di alimentare l’onda, aumentare il consenso attraverso un uso capillare dei media a disposizione. Prima tra tutti la Rai, da oggi ufficialmente terreno di occupazione quasi militare da parte del governo

La giostra delle nomine nella televisione pubblica

(di Diana Santini)
Accompagnato alla porta, con le buone E con le cattive, l’ormai ex ad della Rai Carlo Fuortes, il governo si accinge ora al gioco più antico del mondo, la giostra delle nomine nella televisione pubblica. A sostituire Fuortes, che ha lasciato togliendosi qualche sassolino dalle scarpe e senza che sia andata ancora in porto l’operazione paracadute della direzione del San Carlo di Napoli, sarà, nel ruolo di ad, Roberto Sergio. All’attuale direttore di radio rai, già potente manager di Lottomatica, da mesi è stato promesso lo scranno della Rai, come lui stesso ha più volte dichiarato, dimostrando, se non altro, di non essere scaramantico. Anche se non c’è alcun dubbio sulla sua buona disposizione nei confronti di chi lo nominerà, così va il mondo, non è Sergio l’uomo a cui il governo, e in particolare Giorgia Meloni, vuole affidare il compito di imprimere il proprio marchio ideologico sulla tv pubblica. Il prescelto è Giampaolo Rossi, che ricoprirà il ruolo di direttore generale. Rossi è uno che negli anni ha vestito molti panni, ma sempre neri: nel suo blog, che ora ha chiuso, si è via via definito “complottista, neocon, teocon”. Ha dato del golpista a Mattarella, dell’afro di Honolulu a Obama e degli schizofrenici a tutti quelli che dicevano di temere una guerra della Russia contro l’Ucraina. Da qualche anno ha scelto il basso profilo, anzi di profilo sui social, non ne ha più nemmeno uno: tutto cancellato. Così l’effetto sorpresa è assicurato, anche in vista della cascata di sottonomine, lasciate da spolpare agli alleati di governo rimasti, finora, osso.

I pesanti bombardamenti russi in Ucraina

(di Emanuele Valenti)
Gli ucraini hanno detto di aver intercettato quasi tutti i droni – diverse decine – lanciati su varie zone del paese: Kyiv, Sumy, Kharkiv, Zaporizhia, Odessa.
Qui i russi hanno colpito anche un grande magazzino utilizzato dalla Croce Rossa locale per stoccare gli aiuti umanitari. Non ci sarebbero state vittime, ma le operazioni dell’organizzazione sono state parzialmente sospese.

I pesanti bombardamenti sembrano indicare una chiara strategia di Mosca alla vigilia della possibile contro-offensiva ucraina. Che oltretutto potrebbe diventare la strategia anche durante l’offensiva di terra di Kiev, se e quando arriverà. I russi vogliono poi spingere gli ucraini a utilizzare più munizioni possibili dei loro sistemi di difesa.
Nonostante le difficoltà, che ormai conosciamo, il Cremlino non ha alcuna intenzione di fare marcia indietro. E Putin non guarderà in faccia a nessuno. Lo ribadirà anche domani, in occasione delle celebrazioni per il 9 maggio, la vittoria sovietica contro i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Ci saranno comunque meno parate e manifestazioni del solito.

Mosca avrebbe voluto arrivare a questa data con la conquista di Bakhmut. I comandanti ucraini hanno ribadito che stanno facendo di tutto per non permetterlo.
Sulla linea del fronte è sempre più critica anche la situazione a Kherson, costantemente sotto l’artiglieria russa. Anche oggi ci sono stati diversi feriti.

A Kyiv intanto hanno ricordato come a dieci giorni dalla scadenza dell’accordo sul grano i russi abbiano nuovamente bloccato le ispezioni delle imbarcazioni nel Mar Nero, ostacolando in buona parte il meccanismo che ha permesso finora le esportazioni dei cereali ucraini.

Lo scontro diplomatico tra Unione europea e governo israeliano

La rappresentanza dell’Unione in Israele ha annullato l’incontro previsto per domani per non incontrare il ministro di estrema destra Ben Gvir.
All’ambasciata europea in Israele era prevista la cerimonia diplomatica per la festa dell’Europa alla quale avrebbe dovuto partecipare il ministro della Sicurezza nazionale Ben Gvir.
“Abbiamo deciso di cancellare il ricevimento diplomatico – scriva la rappresentanza – poiché non vogliamo offrire una piattaforma a qualcuno le cui opinioni contraddicono i valori rappresentati dalla Ue”.
La presenza – su delega del premier Benyamin Netanyahu – del leader del partito di estrema destra aveva provocato una serie di polemiche in Israele. Sia Yair Lapid, leader dell’opposizione, sia altri esponenti della stessa corrente avevano espresso forti riserve sulla partecipazione di Ben Gvir.

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    Referendum 8 e 9 giugno, lavoro e cittadinanza. Una quarantina di personalità della ricerca e dell’università hanno lanciato un appello al voto per i cinque referendum. I quesiti chiedono di: «Vivere da cittadini», riducendo da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale in Italia richiesto per ottenere la cittadinanza italiana ai maggiorenni stranieri; «Vivere vite meno precarie», riducendo la possibilità di usare contratti di lavoro a tempo determinato; «Lavorare senza licenziamenti illegittimi», riducendo le possibilità di licenziamenti senza giusta causa; «Lavorare senza discriminazioni», riducendo le possibilità di licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese; «Lavorare senza infortuni», riducendo i rischi di incidenti e morti sul lavoro. Ospiti di Pubblica, per parlare di partecipazione, due firmatari/e: Filippo Barbera, sociologo dell’università di Torino e Donatella Della Porta, scienziata politica alla Scuola Normale Superiore di Firenze. Diverse le domande. E’ arrivato il momento di abbassare la soglia del 50% di partecipazione per rendere valido il referendum? Perchè fallisce la partecipazione? Quanto c’entra la complessità del quesito, la credibilità dei proponenti? «Non possiamo arrenderci all’assenteismo, ad una democrazia a bassa intensità», ha detto il presidente Mattarella per il 25 aprile. Il capo dello stato ha lasciato, però, inesplorate le ragioni profonde dell’astensione, ragioni che risiedono anche nell’impoverimento sociale, oltre che economico, del lavoro. Ha scritto la studiosa, dirigente dell’Istat, Linda Laura Sabbadini: «Il lavoro non è solo un mezzo per guadagnarsi da vivere: è la base della coesione sociale di un paese».

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