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Boeri: “Servono idee non solo un nome”

“Io candidato alle primarie? No, no…” Lo ripete tre volte, prima di aggiungere: “Mi pare non ci siano le condizioni, in questo momento”.

Stefano Boeri è l’architetto milanese sconfitto da Pisapia alle primarie del centrosinistra nel 2010, poi Assessore alla Cultura nella sua Giunta e infine protagonista di un’uscita di scena tempestosa. Il suo è uno dei nomi che, pur tra le smentite, aleggiano da settimane tra i papabili per una prossima candidatura. Il 15 Ottobre Stefano Boeri è stato per un’ora negli studi di Radio Popolare, durante il Microfono Aperto, a parlare di Milano, dei cinque anni passati, dei prossimi anni, delle priorità, delle prospettive future del centrosinistra. Proviamo qui a mettere nell’ordine alcuni dei temi toccati a più riprese con gli ascoltatori.

 

I candidati possibili

Boeri, potrebbe essere tra i candidati alle primarie?

Io sto già cercando di dare una mano alla riflessione su Milano e alle propettive sui prossimi cinque anni. E’ possibile farlo anche fuori dalla politica istituzionale e mi pare il modo più efficace. Si fa politica anche andando nei quartieri e ragionando sul futuro della città.

Quindi non ci si deve aspettare il suo nome?

Mi pare che in questo momento non ci siano le condizioni.

Voglio essere sincero: se mi candidassi – potrebbero farlo molti altri milanesi – rischierei di perdere la possibilità di aiutare la città come mi sembra di essere riuscito a fare in questi ultimi mesi e anni, da architetto e da milanese che guarda anche al di là della propria sfera professionale. Lo sto facendo con i ragazzi di “Milano 2030” (iniziativa sul futuro di Milano, sponsorizzata dallo stesso Boeri, con ragazzi dai 15 ai 25 anni), lo sto facendo girando i quartieri. Mi piace molto e mi pare che dia risultati. Non vorrei compromettere questo possibile contributo entrando in un meccanismo partitico-elettorale che mi sembra ancora immaturo e legato a equilibri e dinamiche che peraltro io non so controllare. Quindi, al momento, io sono completamente fuori.

Chi vedrebbe come possibile candidato?

Milano ha risorse impensabili e straordinarie, anche in pezzi della società che oggi noi non guardiamo. Ad esempio, tra i ragazzi di “Milano 2030” forse non c’è un candidato sindaco, ma come squadra sono ragazzi sorprendenti. Hanno passione, che si accompagna alla grande informazione e all’amarezza di fondo che deriva dalla consapevolezza che il futuro non sarà facile per loro. E’ una caratteristica di fondo di questa generazione.

Proprio non fa un nome?

No.

Giuseppe Sala può essere un buon candidato per il centrosinistra a Milano?

Sala è stato certamente un grande manager nel portare a termine un progetto che in alcuni momenti era diventato molto difficile. Un sindaco tuttavia deve saper scegliere bene le persone di cui si circonda, perché a loro assegna una delega politica fondamentale. In questo, su Sala c’è qualche dubbio, perché in alcuni momenti della vicenda di Expo l’entourage che si è costruito intorno al Direttore generale non è stato dei migliori. Non lo dico io, lo dicono i fatti. Governare una metropoli è un processo di intelligenza collettiva, questo è il futuro. In questo tipo di futuro una città come Roma, Napoli o Milano ha bisogno di un sindaco che sa scegliere molto bene le persone di cui si circonda e con cui condivide una responsabilità così importante.

Cosa manca al centrosinistra per alzare il livello di dibattito verso un progetto credibile? Serve un intervento del sindaco Pisapia?

Potrebbe essere un buon consiglio. Di fatto, il sindaco ha dato un segno di discontinuità rispetto all’esperienza fatta finora. Giustamente si preoccupa delle primarie, ma se più che delle candidature si occupasse di promuovere un grande momento di riflessione collettiva sui prossimi cinque anni sarebbe un’ottima idea. Chi meglio di lui? Può dare il segnale sulla possibile continuità tra i primi cinque anni e i secondi.

Non è che il centrodestra, alla fine, rischia di riprendersi Milano?

Voglio essere chiaro. Il rischio c’è ma dipende da noi, non c’è un automatismo. Noi veniamo da cinque anni positivi e possiamo disegnare un futuro ancora più positivo. Dobbiamo fare uno sforzo di pensiero. Ripeto l’appello a chi ragiona sulle prossime scadenze: lasciamo un attimo da parte la questione dei valori – fondamentali ma che abbiamo ormai già tutte incarnate in questi anni – e i temi di equilibrismi tattici e politici sulle regole, per ragionare insieme su quello che deve essere fatto a Milano. Di candidature ne riparliamo a gennaio, penso che tutto si deciderà allora.

 

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L’esperienza Pisapia

Lei ha avuto un rapporto altalenante con Giuliano Pisapia: avversario alle primarie, suo Assessore alla Cultura, infine dimissionato dalla Giunta. Fa bene il “Comitato degli 11” a indicare come essenziale la continuità con l’esperienza di Pisapia?

Certamente si. Io sono uscito dalla Giunta per vicende che ancora fatico a spiegarmi, ma non sono mai uscito da quest’esperienza, la sento mia. Dopo le primarie ho fatto di tutto perché Pisapia vincesse le elezioni e ho fatto quanto potevo come Assessore. Mi sento parte dell’accelerazione di generosità sociale data dalla città. Milano è straordinaria quando unisce generosità e innovazione, tipici del suo Dna e che vanno insieme. In questi cinque anni forse abbiamo premuto l’acceleratore molto sulla prima questione e un po’ meno sulla seconda. Penso si debba ripartire, tenendo ben saldo quanto si è fatto in questi cinque anni.

Cosa ha prodotto l’esperienza Pisapia?

Come spiegato parlo al plurale, anche se non è tecnicamente corretto.

La cosa fondamentale è che siamo riusciti a garantire un buon governo, una città governata senza illegalità e con una trasparenza che non c’era mai stata.

Abbiamo inoltre sperimentato forme di generosità sociale e condivisione dei servizi. La sharing economy – l’economia della condivisione – è diventata una caratteristica abbastanza unica a livello europeo, sui trasporti e su alcuni servizi oggi Milano è davvero una città all’avanguardia.

Siamo anche riusciti a diffondere una serie di iniziative sul piano culturale. A lasciare che alcuni progetti di energie diffuse, private, partiti anche anni prima, arrivassero a compimento. Anche questa è una qualità della buona amministrazione: non volere determinare tutto, fare regia, fare in modo che la Fondazione Prada o altri spazi nati da iniziative private arrivassero a compimento. Tutti questi sono grandi valori, che vanno difesi. Oggi forse dobbiamo anche cominciare a ragionare di più su come risolvere alcuni enormi problemi di disuguaglianza che ancora Milano ospita. E avere, inoltre, un’idea di quale deve essere il futuro. Questo, credo, ci chiedono anche i giovani che si interrogano sul loro.

Qual è la parola chiave per immaginare il futuro?

“Rischio”. Le grandi città europee oggi competono sulla base di progetti identitari, distinguendosi tra loro, ma sempre con la capacità di guardare avanti prendendo anche dei rischi. Credo che noi dobbiamo iniziare a farlo.

In quali aspetti la Milano immaginata cinque anni fa è riuscita a realizzarsi?

Paragonata a città come Roma, Milano ha senza dubbio un sistema di trasporti pubblici efficiente. Unito al grande slancio sullo sharing – biciclette, auto e oggi anche scooter – questo ha fatto cambiare marcia alla città, quasi anche in senso fisico. Molti cittadini hanno imparato a muoversi senza auto privata e ciò ha generato un miglioramento complessivo della qualità degli spazi, delle zone di sosta e delle zone verdi. C’è ancora molto da fare: in primo luogo allargando a tutta la città questa qualità che al momento è ancora soprattutto visibile nel centro, perché dobbiamo vivere in una metropoli che cammina tutta insieme. Tuttavia, è indubbiamente un passo avanti fatto e su questo non si deve tornare indietro.

 

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Periferie sociali, priorità future

Cosa dovrebbe essere fatto, per la Milano di oggi e di domani?

Credo che il primo punto del programma della nuova Giunta debba essere “cosa fare” sui quartieri di edilizia economica e popolare. E’ un punto fondamentale.

Io sto girando le varie zone. In Via Gola, per esempio, c’è una situazione per me inaccettabile di degrado, abbandono e presidio della criminalità organizzata, che non ho visto nelle grandi metropoli del mondo dove ci sono le favelas. Milano ha perso completamente contatto con alcuni pezzi della città, soprattutto – va detto – corrispondenti ai quartieri gestiti da Aler. Il Comune ha fatto bene ad affidare pezzi del patrimonio pubblico a MM, una scelta molto utile e importante che inizia a dare qualche risultato positivo. La verità tuttavia è che ci sono stati anni di totale disattenzione. Anche nostri. Non abbiamo guardato con sufficiente attenzione ciò che accadeva in questi pezzi di città. Ci siamo concentrati su pezzi della città apparentemente più dinamici, dimenticandoci che migliaia di cittadini vivono in quelle situazioni. In quelle situazioni serve un intervento politico a tutto tondo, non è soltanto l’urbanistica con i regolamenti a poter intervenire.

 

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Expo

Giuseppe Sala ha annunciato che Expo ha ormai superato i 20 milioni di biglietti emessi. E’ legittimo considerarlo un indicatore di successo, per Expo?

Sicuramente si. Ci sono stati alcuni Expo che non hanno raggiunto il tetto minimo di accessi. Il fatto che Milano ci sia riuscita è un grande elemento di successo. Non tutto va misurato attraverso questo paramentro – anche perché al numero di accessi non corrisponde un numero omogeneo di incassi – ma è senza dubbio un segnale di successo fondamentale.

Per quanto riguarda i contenuti, invece, devo dire che anche al Salone del Mobile ci sono sempre momenti di incontri e dibattito, vicino ai prodotti, e quando vado sono contento e imparo qualcosa. Ma da questo a pensare che Expo sia stato un grande evento che ha alzato il livello di consapevolezza dei visitatori sulle grandi questione dell’alimentazione ce ne corre. Io ho qualche dubbio.

In questo momento tuttavia dobbiamo vedere i molti aspetti positivi, cercando di valorizzarli.

Expo è stato un enorme elemento di convergenza, uno sforzo collettivo, molte cose sono nate in questo periodo anche perché c’era Expo, ed è ciò che fanno i grandi eventi. Poi è servito a dare un’immagine internazionale di Milano potente, che da anni non aveva, a sviluppare relazioni internazionali e ad attrarre anche alcuni investimenti, che ci sono stati.

Io sono stato altrettanto chiaro nel criticare una lenta e inarrestabile deriva verso un evento che è diventato una grande kermesse sull’alimentazione. Anche se di grande successo e di qualità. Una specie di grande Salone del Mobile sull’alimentazione che lascia un’eredità importante e da salvare.

Ora che siamo alla fine, cosa dovrebbe succedere di Expo?

L’area di Expo deve restare un luogo centrale, in una città-territorio che ormai si è spostata verso nord arrivando fin quasi a Como, Varese, Lecco e Bergamo. Bisogna salvare le eredità principali: le infrastrutture, il tema dell’alimentazione, le relazioni internazionali che si sono determinate.

Io credo che un grande Salone dell’alimentare, fisso, con le Regioni che sotituiscono i Paesi, resterebbe un’attrazione fondamentale. Salone però vuol dire anche ricerca, produzione in loco.

In secondo luogo, credo che quella di un Campus sia un’ottima idea, se costruito in modo intelligente.

Infine non dimentichiamoci che un referendum ha chiesto di avere un parco su almeno il 50% di quell’area. Un parco delle bio-diversità potrebbe essere molto importante.

Finora, nel dibattito pubblico, si è sentito parlare di una sola tra queste tre voci.

Purtroppo è vero. L’attenzione sul dopo-Expo andava sviluppata prima. Solitamente i grandi eventi di costruiscono a partire dal “dopo”. Nel nostro progetto iniziale avevamo fatto così. Ma c’è ancora tempo di farlo, spero.

L’ingresso dello Stato in Area Expo mi pare una garanzia di attenzione, anche se ho qualche dubbio sul perché lo Stato, per occuparsi del dopo, debba investire ulteriori soldi pubblici entrando come azionista in una società. Lo Stato deve avere la possibilità di indirizzare, governare e determinare anche senza dover fare un investimento diretto. E’ una cosa che mi lascia perplesso. Ciò detto, sono felice che il Governo si stia occupando di Expo: l’ha fatto molto bene con Cantone, sono sicuro che lo farà molto bene anche sul dopo-Expo.

 

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  • Autore articolo
    Massimo Bacchetta
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    “Jazz in un giorno d’estate”: il titolo ricalca quello di un famoso film sul jazz girato al Newport Jazz Festival nel luglio del ’58. “Jazz in un giorno d’estate” propone grandi momenti e grandi protagonisti delle estati del jazz, in particolare facendo ascoltare jazz immortalato nel corso di festival che hanno fatto la storia di questa musica. Dopo avere negli anni scorsi ripercorso le prime edizioni dei pionieristici festival americani di Newport, nato nel '54, e di Monterey, nato nel '58, "Jazz in un giorno d'estate" rende omaggio al Montreux Jazz Festival, la manifestazione europea dedicata al jazz che più di ogni altra è riuscita a rivaleggiare, anche come fucina di grandi album dal vivo, con i maggiori festival d'oltre Atlantico. Decollato nel giugno del '67 nella rinomata località di villeggiatura sulle rive del lago di Ginevra, e da allora tornato ogni anno con puntualità svizzera, il Montreux Jazz Festival è arrivato nel 2017 alla sua cinquantunesima edizione.

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