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Pierfrancesco Favino vince il premio Gian Maria Volontè

Pierfrancesco Favino

Pierfrancesco Favino è l’attore italiano più premiato in questo 2020. Dopo il David di Donatello e il Nastro d’Argento, nei giorni scorsi l’attore romano ha ricevuto il premio dedicato a Gian Maria Volonté alla 17esima edizione del festival «La valigia dell’attore» che si è chiuso all’isola di La Maddalena, in Sardegna.

L’intervista di Barbara Sorrentini a Chassis.

Che effetto ti fa ricevere questo premio dedicato a Gian Maria Volonté?

È una bella coccarda da mettersi addosso, soprattutto per un attore che ho studiato, ammirato e ho sempre visto come un faro inarrivabile. Essere associato a questo nome mi onora e mi fa enormemente piacere, anche per l’affetto che ho per Giovanna Gravina Volontè e per questo posto dove sono stato già altre volte.

Come hai scoperto Gian Maria Volonté?

Gian Maria Volonté secondo me è un attore che si scopre più tardi rispetto ad altri essendo meno immediato. La prima cosa che ricordo di aver visto è stato “Porte Aperte” e dopo sono andato a scoprire tutto quello che non avevo già scoperto in precedenza, fino ad arrivare anche a piccole cose meno conosciute e meno note, come le cose televisive e alcuni spettacoli teatrali.

Quali dei personaggi che lui ha interpretato ti piacerebbe interpretare?

Penso che Giordano Bruno sia un personaggio che mi interesserebbe molto investigare, ma ce ne sono talmente tanti. Quando sei, anche involontariamente, legato ad un attore per averlo ammirato così tanto e per averlo visto così tanto, ci sono delle cose che forse ti sfuggono, ti scappano e che non ti rendi conto di aver colto. Un altro personaggio meraviglioso è il Caravaggio televisivo. Quella è una delle maggiori evidenze della modernità dell’espressività di Volonté. Forse non ci si rende conto fino in fondo che Volonté è stato per l’Italia quello che Marlon Brando è stato negli Stati Uniti. È stato di colpo l’intervento della recitazione moderna, il primo che ha portato a questa modernità e in Caravaggio questa cosa è molto evidente.

Come entri nei personaggi e cosa ti resta?

Sono personaggi diversi con sceneggiature diverse e registi diversi. Seguo sempre il dettame e il desiderio del regista, cerco di capire qual è la valigetta di attrezzi che il regista vuole che porti dal piccolo garage che io nel frattempo ho messo su. Quando si ha a che fare con personaggi reali l’approccio è quello dello studio, dell’osservazione del dettaglio, la lettura quello dell’osservazione anche del dettaglio, la lettura e la messa in discussione. Poi, arrivati al punto in cui hai costruito questo territorio di nozioni e di conoscenza, inizi ad entrare in una dinamica più mimetica. Inizi a domandarti il perché di alcuni comportamenti, magari all’inizio provando semplicemente a rifarli, fino a quando non diventano un’abitudine che nasconde un’ipotesi del perché loro fanno certe cose. Non è tanto il rifare quelle cose, ma domandarsi cosa c’è dietro e qual è il bisogno. E questo, piano piano, arriva anche ad aprire delle domande e delle ipotesi sulla loro intimità e sulla loro vita più profonda, che poi alla fine credo sia quello che interessa allo spettatore.

Com’è stato creare un film durante il lockdown?

Noi eravamo fortunatamente già arrivati alla fine delle riprese quindi potevamo in qualche modo già occuparci del montaggio. E il montaggio è stato possibile anche in quella brutta frase che è lo smart working. Siamo riusciti a finalizzare il film come volevamo, con dei tempi un po’ più larghi di quelli che avevamo immaginato, ma sono estremamente felice di questa opportunità. L’unica cosa di cui ho paura adesso è che questa realtà possa venir manipolata. Io seguo fermamente quello che mi viene detto, sia io che la mia famiglia, continuiamo a girare con le mascherine e stiamo molto attenti, però ho paura che il passo successivo, per una persona che fa un mestiere in cui la condivisione è necessaria, sia che questa manipolazione possa portare ad un isolamento che va al di là del nostro isolamento fisico, un isolamento personale. Questo mi spaventa perché secondo me degli aspetti psicologici di questa realtà non siamo ancora consapevoli. Ce ne sono moltissimi che stanno già lavorando dentro di noi e che continueranno a lavorare dentro di noi. E dobbiamo fare in modo che questa cosa non venga utilizzata in un Mondo che, invece, mi sembra già tendere all’isolamento e all’individualismo in maniera molto forte.

Foto dalla pagina Facebook di Pierfrancesco Favino

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    “Jazz in un giorno d’estate”: il titolo ricalca quello di un famoso film sul jazz girato al Newport Jazz Festival nel luglio del ’58. “Jazz in un giorno d’estate” propone grandi momenti e grandi protagonisti delle estati del jazz, in particolare facendo ascoltare jazz immortalato nel corso di festival che hanno fatto la storia di questa musica. Dopo avere negli anni scorsi ripercorso le prime edizioni dei pionieristici festival americani di Newport, nato nel '54, e di Monterey, nato nel '58, "Jazz in un giorno d'estate" rende omaggio al Montreux Jazz Festival, la manifestazione europea dedicata al jazz che più di ogni altra è riuscita a rivaleggiare, anche come fucina di grandi album dal vivo, con i maggiori festival d'oltre Atlantico. Decollato nel giugno del '67 nella rinomata località di villeggiatura sulle rive del lago di Ginevra, e da allora tornato ogni anno con puntualità svizzera, il Montreux Jazz Festival è arrivato nel 2017 alla sua cinquantunesima edizione.

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