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Oltre Big Pharma ci vuole BioMed Europa, la rivincita del pubblico

epidemia coronavirus

Big Pharma, com’è noto, è la grande industria planetaria del farmaco, un settore che agisce badando prioritariamente alla profittabilità dei propri investimenti in Ricerca e Sviluppo piuttosto che alla cura e alla salute. BioMed è il nome di una infrastruttura pubblica, ancora allo stadio di proposta, che dovrebbe svolgere attività di ricerca e produzione sui farmaci rispondendo al criterio del diritto alla salute.

Memos ha ospitato due economisti, Laura Iacovone e Massimo Florio dell’università Statale di Milano, autori dell’articolo “Pandemie e ricerca farmaceutica” pubblicato su eticaeconomia.it.

Iacovone e Florio sostengono che l’industria farmaceutica in questi ultimi anni è stata latitante nella ricerca e nella produzione di vaccini, ad esempio contro i coronavirus della Sars (2002) e della Mers (2012). Una latitanza dovuta a ragioni strutturali che rendono l’industria farmaceutica privata inadeguata a coprire alcuni rischi sanitari.

Al suo posto – sostengono Iacovone e Florio – ci vuole una struttura pubblica e sovranazionale. “L’abbiamo chiamata BioMed Europa e dovrebbe essere strutturata come il Cern di Ginevra”.

Professor Florio, perché l’industria farmaceutica si è tenuta lontana dalla produzione di un vaccino e le imprese non hanno puntato alla ricerca sulle malattie infettive?

Credo che sia una combinazione di due fattori. Il primo fattore è il rischio che un investitore corre quando deve mettere a punto dei vaccini o degli strumenti terapeutici in campi come questi. Non è una ricerca facile. In particolare, per quanto riguarda i coronavirus, gli esperti ci dicono che paradossalmente, siccome sono delle strutture biochimiche estremamente semplici che hanno bisogno di replicarsi nelle cellule umane e nel farlo mutano continuamente, è come dover sparare su un bersaglio sempre in movimento. Non è una ricerca facile per i vaccini e non lo è per gli antivirali. Gli investitori avversi al rischio si tengono alla larga da questo tipo di bersagli. La seconda ragione è legata alle dimensioni di mercato.
In passato le epidemie simili a questa, come l’influenza aviaria, avevano la caratteristica che, essendo molto letali, il virus uccideva rapidamente l’ospite umano e si poteva propagare abbastanza poco. Il potenziale di mercato è abbastanza scarso perché il fenomeno patologico normalmente si auto contiene. Tuttavia da decenni i virologi avvisavano che avrebbe potuto, magari con un salto di specie dagli animali all’uomo, arrivare un virus abbastanza furbo da non uccidere una grande quantità di ospiti umani e favorire così la replicazione.
Dal punto di vista del mercato, anche se si sapeva che una pandemia poteva arrivare, quelle che c’erano state erano delle epidemie locali. Pensiamo ad Ebola, sei famiglie di virus terribilmente letali: ha colpito piccoli villaggi africani e per questo non c’è mercato. La combinazione di rischio alto e mercato piccolo spiega perché ci troviamo così nei guai.

Professoressa Iacovone, la latitanza che avete descritto e motivato si può avvertire anche oggi sul tema della pandemia da COVID-19?

Forse anche l’industria sta valutando come ridisegnare i percorsi di ricerca. C’è un movimento a livello internazionale con alcune Big Pharma che stanno verificando la possibilità di stabilire delle collaborazioni con società più piccole e specializzate, con centri di ricerca privati che hanno le competenze e le capacità e, probabilmente, sono anche più veloci in questo senso. Questo potrebbe essere anche un modo per imparare a lavorare meglio nel prossimo futuro rispetto a quelle patologie che, come abbiamo visto, sono state trascurate.
Dietro c’è un discorso di tipo strutturale su come viene fatta ricerca all’interno dell’industria farmaceutica, che sempre più spesso è delegata a terzi perché le strutture Big Pharma non sempre hanno la velocità: sono strutture estremamente rigide che tendono a determinare quelli che possono esserci i percorsi di sviluppo, ma le vere competenze innovative le ritroviamo in certe start-up, se si pensa alla genomica o ad altre tecnologie di frontiera applicata al farmaceutico. Il fatto che il COVID abbia interessato Paesi occidentali dimostra come queste pandemie non abbiano effettivamente confini e che non si possa più ragionare a compartimenti stagni come un tempo. Credo che questo sia un momento di grande apprendimento per la stessa industria farmaceutica.

Nel vostro articolo scrivete che i vincoli dell’industria farmaceutica possono essere superati grazie anche all’aiuto dei giganti della tecnologia come Google, Amazon, Facebook, Microsoft e IBM, che offrono degli strumenti di intelligenza artificiale che possono attenuare i rischi delle sperimentazioni. Che cosa significa esattamente, professoressa Iacovone?

L’intelligenza artificiale sta aiutando la ricerca farmaceutica a individuare percorsi di sviluppo di nuovi farmaci riducendo il rischio imprenditoriale di cui si parlava poco fa. Si va meno alla cieca e si individuano quelli che potrebbero essere i filoni con maggiori probabilità di successo. IBM Watson è stato il primo contributo in termini di intelligenza artificiale applicato, ad esempio, alle cure per i principali tumori e ha permesso di ottenere dei risultati estremamente importanti. Queste aziende sono tra i principali investitori nel mondo della salute e stanno investendo anche nei servizi e nelle app che hanno capacità diagnostica. Stanno diventando una cerniera tra mondi diversi e forse saranno in grado anche di ridefinire i confini settoriali. Chi avrà tecnologie di questo tipo avrà più probabilità di successo di individuare il vaccino o il farmaco giusto per le patologie.

Professor Florio, voi avete messo in evidenza alcuni caratteri strutturali che fanno sì che la ricerca dell’industria farmaceutica nel campo dei vaccini possa essere in qualche modo scoraggiata, ritenuta non profittevole. Nel nuovo articolo che pubblicherete avanzate la proposta di una infrastruttura pubblica a livello europeo che può aiutare a superare questi ostacoli. Ci spiega di cosa si tratta?

L’idea è molto semplice. Visto che l’industria farmaceutica privata ha certi obiettivi ed una certa struttura che non è adeguata a coprire alcuni rischi sanitari fondamentali e tenuto conto delle modalità con cui si formano i prezzi dei farmaci, serve avere un altro tipo di struttura pubblica e sovranazionale perché la salute è un bene pubblico e non ha molto senso perseguirla Paese per Paese.
L’esempio che facciamo nell’articolo è che serve qualcosa come CERN, che è un organismo sovranazionale a cui partecipano molti Paesi, oppure come l’Agenzia Spaziale Europea, che è un altro organismo sovranazionale. Un gruppo di Paesi che si mettono insieme e creano una infrastruttura di ricerca, sviluppo e produzione e che, attraverso anche accordi con il settore privato per la logistica e la distribuzione, coprano tutto il ciclo del farmaco per tutti quei campi in cui il settore privato si sta rivelando inadeguato.
L’abbiamo chiamato BioMed Europa e pensiamo che potrebbe essere il CERN delle scienze biomediche europee.

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    Redazione
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