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Non perdiamo la nostra lingua. REPORTAGE

Nevzat parcheggia il suo taxi davanti alle mura che chiudono il centro storico di Nevzat parcheggia il suo taxi davanti alle mura che chiudono il centro storico di Diyarbakir e risponde al cellulare. Lo sta chiamando il figlio, trent’anni in meno di lui. Fino a quel momento Nevzat aveva parlato in curdo, la sua lingua, la lingua con la quale è cresciuto, nonostante i tanti divieti imposti dallo stato. Con suo figlio Ozan parla però in turco. La telefonata dura meno di un minuto. Chiusa la conversazione Nevzat rimette in moto il taxi e riprende a parlare in curdo.

Siamo nella capitale politica del Kurdistan turco, da dove sono partite tutte le battaglie e le rivendicazioni della comunità curda, eppure non tutti parlano curdo. Anche all’interno di una stessa famiglia, come quella di Nevzat, ci sono differenze. E soprattutto ci sono differenze tra le nuove e le vecchie generazioni.

In questa regione anche nelle zone considerate delle roccaforti del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan di Abdullah Ocalan, i bambini e i ragazzini parlano quasi esclusivamente in turco. Eppure quasi tutti dicono di sentirsi curdi.

A differenza di quello che si potrebbe pensare in Europa la lingua e la cultura non sono più centrali nel conflitto tra i curdi e lo stato centrale. Atalay Gocer, dell’Istituto per gli Studi Politici e Sociali di Diyarbakir (DISA), un’organizzazione indipendente, ci spiega molto bene quello che è successo: “Negli anni novanta i curdi che si trasferivano dalle campagne alle città parlavano ovviamente la loro lingua, anche se era vietata. Ma visto che nei centri urbani la lingua pubblica era il turco si sono dovuti adeguare. Invece per i loro figli – ci spiega Atalay Gocer – il processo è stato diverso. Sono nati qui, sono cresciuti qui, e alla fine il turco è diventata la lingua anche della loro vita privata, non solo di quella pubblica”.

E infatti secondo le ricerche dell’Istituto di Diyarbakir per gli Studi Politici e Sociali oggi la maggior parte dei giovani curdi parla in turco, almeno nei centri urbani. “Trattandosi di una popolazione bilingue – ci spiega ancora Atalay Gocer – è impossibile dare dei numeri precisi, ma la tendenza è piuttosto chiara: il turco è sempre più la lingua dominante”.

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Come in tutte le zone di conflitto anche qui nel Kurdistan turco convivono e si sovrappongono diverse identità etniche, culturali e politiche. Quindi è normale che pur sentendosi curdi i giovani di questa regione tendano a parlare una lingua diversa da quella dei loro nonni e dei loro genitori.

La parola chiave è assimilazione. La lingua curda è stata discriminata per lungo tempo e alla fine la politica di assimilazione dello stato centrale ha avuto successo. Infatti i curdi continuano a lottare per la sopravvivenza della loro cultura, ma la lotta non è più contro il governo, bensì è all’interno della loro stessa comunità.

Oggi l’obiettivo principale non è più fermare le politiche decise ad Ankara, ma stimolare l’interesse per la lingua e la cultura curda tra i giovani di questa regione. All’Università Statale di Mardin, a sud di Diyarbakir, verso il confine siriano, è nato da qualche anno il primo dipartimento di lingua e letteratura curda di tutto il paese. Gli iscritti sono 120, divisi in quattro classi. L’Università di Mardin conta in tutto circa settemila studenti.

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L’interesse per gli studi in curdo è ancora molto basso. “Quello che facciamo qui è utile – ci racconta Hayrullah Acar, Professore di Letteratura Curda – ma non sufficiente. È un primo passo. In realtà vorremmo che il curdo venisse insegnato anche nelle scuole, ma non è così, è solo un insegnamento opzionale, infatti i nostri primi laureati che vorrebbero lavorare nell’educazione sono ancora disoccupati”.

Dopo questo dipartimento ne sono state aperti due simili in altre università, ma il problema di fondo rimane sempre lo stesso. “Noi cerchiamo di mantenere viva la nostra lingua – ci spiega il direttore del corso di laurea in curdo a Mardin, Abdurrahman Adak – cerchiamo di darle una nuova spinta, anche se la generazione degli studenti universitari è quasi una generazione persa”.

E gli stessi studenti confermano che il processo è difficile. “La battaglia per la mia lingua è una battaglia contro la mia stessa psicologia – ci dice una ragazza. Quando tutti parlano in turco, e molti intorno a me lo fanno, io non mi sento a mio agio. In realtà anche a me capita di pensare in turco ma continuo comunque a parlare in curdo”.

L’Università di Mardin è un’istituzione statale. Questo dimostra come negli ultimi anni, in sostanza dall’inizio dell’era Erdogan, nel 2003, le cose siano in parte cambiate. Lo stato centrale ha infatti ammorbidito le sue politiche nei confronti della comunità curda, circa 15milioni di persone, anche se la situazione è tutt’altro che normalizzata.

Proprio per questo motivo la maggior parte delle iniziative legate al recupero di questa cultura sono state organizzate al di fuori delle istituzioni statali. Associazioni, gruppi giovanili, centri civici, organizzazioni legate ai comuni controllati dal Partito Democratico del Popolo (HDP) l’unico partito che dà voce alla comunità curda.

Ovviamente il loro sforzo sarebbe molto più facile se ci fosse la pace, ma dallo scorso luglio sono ripresi gli scontri armati tra l’esercito e il PKK e Ankara ha dichiarato chiuso il processo di pace, che tra l’altro prevedeva una serie di riforme costituzionali proprio a favore della minoranza curda.

“Negli anni scorsi il nostro istituto – ci racconta ancora Atalay Gocer – ha presentato una serie di studi alla commissione parlamentare per la riconciliazione. Abbiamo cercato di dargli degli strumenti utili per adottare le politiche più appropriate. Hanno dimostrato tutti molto interesse, ma alle parole non sono mai seguiti i fatti”.

Per ottenere dei risultati in un contesto così complesso bisogna cominciare molto presto, quando i bambini non si sono ancora inseriti nella società. Una piccola casa editrice, HIVA, sta lavorando proprio in questa direzione, come ci spiega Ulku Bingol, poeta, scrittore ed editore. “Noi facciamo libri per bambini per fermare l’assimilazione da parte dello stato, ma anche l’auto-assimilazione. Secondo noi i bambini devono leggere e scrivere in curdo fin da piccoli, devono cominciare subito. Solo in questo modo possiamo stimolare la loro curiosità. Siamo nati due anni fa – continua Ulku Bingol – abbiamo fatto 41 libri, e abbiamo venduto 100mila copie. Partecipiamo a fiere, vendiamo i nostri libri in tutto il paese e anche all’estero, ma il contesto non è facile. Non ci sono ostacoli concreti alla nostra attività, però il ministero dell’educazione continua a non comprare i nostri libri, che così non arrivano nelle scuole e negli asili pubblici. È una forma di pressione indiretta”.

Chi sostiene l’attuale governo, anche qui a Diyarbakir, è convinto che una buona parte della comunità curda soffra di una sindrome da accerchiamento. In questi giorni abbiamo sentito più volte la frase “ragionano ancora come se fossero discriminati e minacciati quotidianamente, ma non è più così”.

Per quello che abbiamo capito in questa affermazione c’è un fondo di verità. Le pressioni da parte dello Stato ci sono, ma sono indirette, a volte mascherate, e soprattutto la Turchia il suo obiettivo, assimilare i giovani curdi, lo ha già raggiunto.

  • Autore articolo
    Emanuele Valenti
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