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Mindhunter. Nella mente dei serial killer

Il crime è un macrogenere che contiene in sé prodotti differenti tra loro: dai telefilm con un caso da risolvere a ogni puntata, come Criminal Minds o CSI, a quelli con lunghi archi stagionali, come The Killing o The Fall; ma anche documentari su casi realmente accaduti, come Making a Murderer e The Jinx, o le storie che stanno dalla parte del cattivo, come Dexter o Hannibal.

Ecco, il serial killer: una figura ricorrente, situata al confine tra cronaca nera e immaginario popolare, allo stesso tempo terrificante e affascinante, praticamente perfetta per stare al centro di racconti, appunto, seriali.

L’ultimo a provarci, in ordine di tempo, è stato David Fincher, il regista di Seven e Fight Club, che alla serialità tv si era già approcciato con House of Cards e aveva già inseguito un assassino misterioso (e realmente esistito) nel thriller Zodiac.

Con Mindhunter – la prima stagione già interamente disponibile su Netflix – il regista e produttore torna alle origini, cioè alla nascita della psicologia criminale, negli anni 70: la serie è tratta dall’omonimo memoir di John Douglas (edito da Longanesi), ex agente speciale FBI tra gli inventori del profiling.

Protagonista, una tipica coppia di sbirri: il giovane idealista e il veterano scafato, con l’aggiunta di una professoressa di psicologia, girano l’America intervistando assassini seriali celebri – dal killer delle studentesse universitarie Ed Kemper al feticista delle scarpe da donna Jerry Brudos – nel tentativo di decodificare la loro mente, di capirne il funzionamento, di estrarre qualche regola che possa prevenire tragedie future.

È una serie cerebrale, che per molti aspetti assomiglia alla straordinaria prima stagione di True Detective – e che prova a fare un esercizio paradossale e profondamente necessario: comprendere l’incomprensibile, contrastare la follia con la scienza, trovare le parole giuste per cose innominabili.

Mindhunter diventa, inevitabilmente, anche una cartografia americana: in un momento che vede gli statunitensi sempre più divisi, mostra che provare a capire anche chi ci sembra così distante da noi è l’unica via per una qualche salvezza.

  • Autore articolo
    Alice Cucchetti
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    “Jazz in un giorno d’estate”: il titolo ricalca quello di un famoso film sul jazz girato al Newport Jazz Festival nel luglio del ’58. “Jazz in un giorno d’estate” propone grandi momenti e grandi protagonisti delle estati del jazz, in particolare facendo ascoltare jazz immortalato nel corso di festival che hanno fatto la storia di questa musica. Dopo avere negli anni scorsi ripercorso le prime edizioni dei pionieristici festival americani di Newport, nato nel '54, e di Monterey, nato nel '58, "Jazz in un giorno d'estate" rende omaggio al Montreux Jazz Festival, la manifestazione europea dedicata al jazz che più di ogni altra è riuscita a rivaleggiare, anche come fucina di grandi album dal vivo, con i maggiori festival d'oltre Atlantico. Decollato nel giugno del '67 nella rinomata località di villeggiatura sulle rive del lago di Ginevra, e da allora tornato ogni anno con puntualità svizzera, il Montreux Jazz Festival è arrivato nel 2017 alla sua cinquantunesima edizione.

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