
Il Sudafrica è stato nel Continente nero il caso unico di un paese nel quale nel Novecento si è assistito ad una diffusa declinazione – spesso molto originale – delle forme del jazz d’oltre Atlantico; non solo: almeno nel periodo compreso fra gli anni trenta e gli anni sessanta – un arco di tempo in gran parte coincidente con la fase di reale popolarità del jazz in Nord America – in termini di seguito di massa del jazz il Sudafrica è stato secondo nel mondo solo agli Stati Uniti.
Alla fine degli anni cinquanta il jazz sudafricano, malgrado le vessazioni dell’apartheid, esprime delle punte molto avanzate.
Ma nel marzo 1960 la polizia apre il fuoco contro una pacifica dimostrazione facendo quasi cento morti, fra cui molti bambini: il massacro di Sharpeville, con cui il sistema dell’apartheid comincia a mostrare il suo volto più feroce, rappresenta per molti musicisti uno spartiacque.
Diversi, fra cui Miriam Makeba, che aveva già lasciato il paese, e il trombettista Hugh Masekela, scelgono l’esilio negli Stati Uniti.
Nei primi anni sessanta si fanno notare i Blue Notes, un nuovo gruppo che all’inizio del ‘64 assume la sua configurazione definitiva: bianco il pianista Chris McGregor, e neri tutti gli altri: i sassofonisti Dudu Pukwana e Nick Moyake, il trombettista Mongezi Feza, il contrabbassista Johnny Dyani e il batterista Louis Moholo.
La politica di separazione delle razze dell’apartheid rende proibitiva l’esistenza di un gruppo misto come i Blue Notes: invitati a partecipare nel ‘64 al prestigioso festival di Antibes, i Blue Notes prendono la via dell’esilio in Europa.
Nick Moyake non regge, e rientra in Sudafrica, dove, malato, morirà nel giro di qualche anno.
Gli altri approdano a Londra, uno dei poli fondamentali dell’emergere, proprio in quella fase, dell’improvvisazione radicale europea, che porta a conseguenze ancora più estreme la libertà del free jazz afroamericano: alla nascente improvvisazione europea i Blue Notes portano in dote l’energia che hanno accumulato subendo con insofferenza le angherie dell’apartheid, e anche gli accenti inconfondibili della musica popolare sudafricana.
Ma non pago di averli spinti all’esilio, il destino si accanisce contro i giovani sudafricani: Mongezi Feza muore nel ‘75, il bassista bianco sudafricano Harry Miller, che ha solidarizzato con loro, nell’83, Johnny Dyani nell’86, Chris McGregor e Dudu Pukwana nel ‘90, a pochi mesi uno dall’altro, lasciando Louis Moholo come unico sopravvissuto del gruppo: l’unico che ha poi visto qualche anno dopo la fine dell’apartheid.
Fra i batteristi più poderosi e intelligenti dell’improvvisazione europea, e leader carismatico, dopo essere rimasto a Londra per quarant’anni Moholo una ventina di anni fa è tornato a vivere a Langa, la township vicino a Cape Town dove era nato, probabilmente nel ‘38, e dove nella sua casa è morto venerdì 13 giugno.
Fino al ritiro dalle scene per motivi di salute cinque anni fa, Moholo aveva continuato a rappresentare e a portare avanti l’eroica epopea musicale e umana dei Blue Notes.
Il grosso della produzione discografica dei Blue Notes e sua è nel catalogo della Ogun, etichetta fondata nel ‘74 da Harry Miller e ancora attiva a Londra: alla fine di luglio la Ogun pubblicherà Live in Foggia, un inedito in trio, intestato a Louis Moholo e a due delle più importanti figure del jazz inglese d’avanguardia, il compianto pianista Keith Tippett e il sassofonista Larry Stabbins.