Approfondimenti

Jazz d’avanguardia in Macedonia

Skopje Jazz Festival 2018

Thurston Moore tira fuori dalle corde un effetto che fa pensare ad una grattugia, o usa la chitarra, spesso senza toccare le corde, per dare vita a suoni prolungati e modularli; Mette Rasmussen col suo sax alto produce fischi e sovracuti: ha il senso di una performance estemporanea, ed è piuttosto brava a creare in tempo reale un legame con quello che fa il chitarrista dei Sonic Youth, che ha invitato a raggiungerla sul palco dopo una quarantina di minuti di solo. Il linguaggio di Mette Rasmussen (danese, trentottenne, ha fatto parte fra l’altro della Fire! Orchestra di Mats Gustafsson) è quello di un post-free radicale, che la sassofonista declina – rivelando una significativa personalità – in una chiave molto diretta e incisiva tanto nell’espressione che nel suono. Il suo set comincia con un brano di tredici minuti: poi brani più brevi, ognuno con una sua fisionomia, uno per esempio con barriti che scandiscono aspri fraseggi; infine un quarto d’ora di musica assolutamente informale in duo con Moore.

Skopje Jazz Festival 2018

Non è proprio scontato che una rassegna apra una serata di sabato con un set del genere. No, non siamo né ad Area Sismica di Forlì, né ad una delle manifestazioni dedite alle forme più audaci di improvvisazione e di sperimentazione come Nickeldorf, Mulhouse, Wels. Siamo in un festival di jazz che si tiene in un elegante teatro moderno nel bel mezzo di una capitale, ma che è piuttosto audace e anticonformista nelle sue scelte: lo Skopje Jazz Festival, arrivato da giovedì 18 a domenica 21 ottobre alla sua trentasettesima edizione, proprio nei giorni in cui il parlamento macedone votava – dopo l’insuccesso del referendum che doveva sancirlo – per il cambio di nome del paese da Repubblica di Macedonia a Repubblica della Macedonia del Nord.

Per la sua anzianità di servizio e per la sua qualità, il festival è un riferimento nell’area dell’ex Jugoslavia; nelle scelte non è difficile cogliere la competenza e la passione di Oliver Belopeta, direttore artistico di lungo corso. Il festival ha come cornice il Macedonia Opera and Ballett, nel pieno centro di Skopje: intorno c’è l’incredibile scenario di surreali architetture neoclassiche/post-moderne e di statue e monumenti a più non posso, prodotto di una demenziale (e molto contestata in Macedonia) politica di immagine portata avanti nell’ultima decina d’anni dai presidenti ultranazionalisti del paese. La sala dispone di circa 750 poltrone, abbondantemente occupate nelle quattro serate del festival da un pubblico attento, che, coltivato da questa rassegna, non si scompone nemmeno di fronte alle proposte meno agevoli.

Anche le prime due serate del festival sono state aperte da un solo.
Di Alexander Hawkins abbiamo parlato in settembre in un post sul festival di Sant’Anna Arresi: dopo aver ascoltato il suo solo al festival sardo, e quello a Skopje, c’è da attendere con molta trepidazione l’album che a breve il pianista inglese inciderà in solitudine per la Intakt. Encomiabile la capacità di Hawkins di offrire davanti ad una platea colma un set di una cinquantina di minuti di assoluta concentrazione, di estrema serietà, senza concessioni, completamente assorto nello scavo nell’espressione. Il solo si è snodato attraverso lunghe sequenze in cui non c’era un tema che emergesse in senso convenzionale, ma c’erano invece tanti elementi che si combinavano e si avvicendavano, caratterizzando momenti diversi all’interno della sequenza: un po’ come se ogni brano fosse fatto da un susseguirsi di brani diversi. Forte in atmosfere inquiete, sospese, l’influenza della musica classico-contemporanea novecentesca, che nutre l’espressione di Hawkins assieme alle lezioni di tanti stili del pianismo jazz, dalle origini al free, e ad altre influenze contemporanee, come il minimalismo. Formidabile l’originalità di un Take The A Train scandito per piccole cellule poi inserite in un flusso (Alexander Hawkins sarà a Milano il 10 novembre alle 17.30 all’Auditorium della Camera del Lavoro, per la stagione dell’Atelier Musicale, con il gruppo Urto di Gabriele Mitelli).

Skopje Jazz Festival 2018

Prezioso anche il solo di Wadada Leo Smith. Il trombettista è stato nella seconda metà degli anni sessanta uno dei protagonisti dell’emergere del post-free chicagoano, ed è da allora una delle grandi figure dell’avanguardia. A Skopje ha presentato in prima europea le sue “Reflections and Meditations on Monk”, consegnate all’album con questo titolo pubblicato lo scorso anno dalla Tum Records. E nella sua poesia, nella sua intensità, nella bellezza dei suoni, davvero riflessivo e meditativo è apparso questo suo omaggio, in cui Wadada ha alternato brani propri e di Monk. Sorprendenti, originalissimi, due passaggi in cui Wadada si è seduto al pianoforte. Alla fine del set Round Midnight, di cui ha richiamato il tema in modo molto esplicito e a lungo.

Skopje Jazz Festival 2018

Splendido il rinnovato quartetto di David Murray, sax tenore e clarinetto basso – con un nuovo pianista, David Bryant, un contrabbassista, Dezron Douglas, alla sua prima volta con la band, e Nasheet Waits alla batteria – e riuscita la combinazione con lo slammer Saul Williams. Come l’album da poco uscito (Blues for Memo, Motéma Music), il set di Murray e Williams era dedicato a Mehmet “Memo” Ulug, il discografico e organizzatore scomparso prematuramente nel 2013 che con il suo club Babylon a Istanbul e con l’Akbank Jazz Festival ha dato un contributo decisivo all’apertura della Turchia al jazz d’avanguardia. Murray non ha perso l’occasione – proponendone un brano, Obe – di ricordare anche il suo grande amico Butch Morris, che ad Instabul aveva vissuto a lungo. Un Murray ispirato, espressivo, vario, libero, che fa veramente “parlare” il sax: anche le sue sono “spoken words”, come quelle di Saul Williams.

Skopje Jazz Festival 2018

Harriet Tubman ha presentato alcuni brani di The Terror End of Beauty, il loro nuovo album in uscita fra qualche settimana. Il gruppo è stato formato vent’anni fa dal chitarrista Brandon Ross, dal bassista Melvin Gibbs e dal batterista J.T. Lewis, che hanno scelto come nome quello di un’eroina afroamericana della lotta contro la schiavitù. Messe assieme, le collaborazioni che Ross, Gibbs e Lewis hanno all’attivo fanno un bel pezzo della musica degli ultimi decenni: da Archie Shepp a Henry Threadgill, da Butch Morris a Herbie Hancock, dai Defunkt ai Lounge Lizards, da Caetano Veloso a Whitney Houston, da Tina Turner a Lou Reed. Come trio guardano in particolare ad una costellazione di esperienze che hanno come denominatori comuni il loro essere black ed elettriche: Jimi Hendrix, Miles Davis, Ornette Coleman, Parliament/Funkadelic, per fare qualche nome. Fra questi mentori c’è, non ultimo, anche Sonny Sharrock – l’unica rilevante figura di chitarrista nell’ambito del free jazz – a cui è dedicato il brano che dà il titolo al nuovo disco. Dell’album il trio ha anticipato anche la propria lettura di Redemption Song di Marley, e The Green Book Blues, dedicato al libro pubblicato nel ’36 da Victor Hugo Green, una guida destinata agli automobilisti afroamericani, per evitare di incorrere in guai, a volte persino mortali, con polizia e razzisti e per localizzare hotel, luoghi di ristoro e stazioni di servizio “friendly” nei confronti dei neri. Harriet Tubman è un trio che può essere decisamente energetico, di impatto, ma la cui musica ha anche molto di sognante, e persino di flemmatico, come una determinazione calma; una dimensione a cui Brandon Ross contribuisce con il suo amore per lo spazio, il suo gusto per le note che si dilatano, come in una aspirazione a quella libertà a cui il gruppo si ispira.

Skopje Jazz Festival 2018

Le prime tre serate, a mezzanotte il festival è continuato nella spartana sala stile centro sociale del non lontano Youth Cultural Centre. Fantastica, più ancora che il suo duo con il batterista norvegese Paal Nilssen-Love, la prima mezzora in solo di Arto Lindsay. Sono passati tanti anni – quattro decenni – da quando Lindsay emerse con i DNA come una delle figure di riferimento della no wave newyorkese, e il suo stile alla chitarra, con schegge di suono, scatarrate, convulsioni schizzate, mantiene una autentica originalità e una corroborante vitalità: assieme con il modo stralunato di cantare con cui declina la sua passione per la musica popolare brasiliana (Lindsay è cresciuto in Brasile) ne viene fuori un esempio impagabile, unico – potremmo dire – di noise MPB, di no bossa.

Skopje Jazz Festival 2018

Da segnalare infine che lo Skopje Jazz Festival ha contribuito alla realizzazione di The Spirits of Africa. West Africamn Ritual Art, una mostra di maschere e sculture dell’Africa occidentale inaugurata alla vigilia della rassegna al Museum of Macedonia, che presenta una serie di pezzi in prestito dal museo di arte africana di Bergrado, nato nel ’77 e unico nel suo genere nell’area dei Balcani. La collaborazione del festival per questa esposizione costituisce un altro aspetto dell’impegno rivendicato esplicitamente dalla manifestazione per la valorizzazione e la diffusione della cultura africana e di origine africana in Macedonia: la rilevante presenza di musicisti afroamericani nel cartellone di quest’anno non è casuale per una manifestazione che ha da sempre avuto un occhio di riguardo per il jazz neroamericano e legato ad una matrice musicale e culturale africana. Nella sua lunga vicenda il festival ha anche presentato diversi musicisti del contnente nero, come Salif Keita, Toure Kunda, Mory Kante, YoussouN’Dour: molti altri, soprattutto del Mali, sono invece apparsi in un’altra manifestazione a cui lo Skopje Jazz Festival ha dato origine nel 2002, Offest, che è consacrata alla world music e si svolge in primavera.

La foto dei musicisti sono di Sasho N. Alushevski.

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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