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La storia di Aaron Bushnell, il giovane che si è dato fuoco per protestare contro i massacri in Palestina

veglia Aaron Bushnell USA ANSA

Domenica nel primo pomeriggio, davanti all’ambasciata israeliana di Washington, un uomo si è dato fuoco. “Posso aiutarla?” ha chiesto qualcuno mentre l’uomo si versava sulla divisa dell’aeronautica militare del liquido infiammabile e poi con l’accendino appiccava le fiamme. “C’è un incendio” ha gridato subito dopo qualcun altro. Un pompiere si è precipitato con un estintore sul corpo dell’uomo, mentre un’agente della polizia puntava assurdamente la pistola verso l’uomo a terra coperto dalle fiamme. “Non ho bisogno di armi, ma di un estintore” gli ha gridato il pompiere. L’uomo in fiamme è stato portato in ospedale, e diverse ore dopo, è morto. Era Aaron Bushnell, aveva 25 anni, era un militare dell’aeronautica militare di stanza a San Antonio, in Texas.

Da quando è arrivato davanti all’ambasciata fino al momento in cui è crollato a terra, non ha mai smesso di gridare “Free Palestine”, Palestina libera. Quella mattina, su Facebook, Aaron Bushnell aveva scritto: “Molti di noi amano chiedersi: ‘Cosa avrei fatto se fossi stato vivo durante la schiavitù? O durante le leggi Jim Crow degli stati del Sud? O l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo un genocidio?’ La risposta è: quello che stai facendo. Proprio adesso”.

Il post includeva un collegamento a uno streaming live della sua protesta sulla piattaforma Twitch. “Il mio nome è Aaron Bushnell”, ha detto mentre si cospargeva il corpo di benzina “Sono un membro in servizio attivo dell’aeronautica degli Stati Uniti e non sarò più complice del genocidio. Sto per intraprendere un atto di protesta estremo, ma rispetto a ciò che la gente ha vissuto in Palestina per mano dei loro colonizzatori, non è affatto estremo. Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso che sarà normale”.

Il suo gesto richiama quello dei monaci buddisti di Saigon, a fine anni Sessanta contro la guerra statunitense in Vietnam, o quello di Jan Palach contro la normalizzazione della Primavera di Praga. Ma anche a dicembre 2023, ad Atlanta, un altro uomo si è dato fuoco avvolto dalla bandiera palestinese. Come può una persona mettere fine alla propria vita in questo modo per una causa che non lo tocca direttamente? L’immagine di Bushnell che si dà fuoco ha fatto grande scalpore nel mondo arabo, mentre in occidente è passata piuttosto in secondo piano, annacquata dai dubbi sulla sua salute mentale.

Certamente un suicidio, qualunque sia la motivazione che lo spinge, si porta dietro tutta una serie di questioni complesse. Quello di Aaron Bushnell, però, va oltre. Durante la sua breve vita si era spesso speso per aiutare i poveri e gli oppressi e un ragazzo che aveva lavorato con lui nel volontariato con i senzatetto, lo ha descritto come la persona con i principi più forti che avesse mai conosciuto. Il suo gesto può essere analizzato da tanti punti di vista, ma allargando lo sguardo c’è una questione che spicca più delle altre: ciò che succede a Gaza è insopportabile.

È insopportabile per la gente comune, per le persone, ma non per i governi. Dovrebbe esserci un altro modo per mettere fine al massacro, dovrebbe essere la politica a farlo. Invece la pace sembra così lontana, così poco voluta da chi potrebbe farla, che un ragazzo di 25 anni non trova altra soluzione se non darsi fuoco davanti all’ambasciata israeliana gridando al mondo: “Io non sarò complice di un genocidio”. Così, mentre i morti a Gaza sono quasi 30mila, mentre le persone muoiono letteralmente di fame, mentre il governo statunitense vota contro una risoluzione ONU per il cessate il fuoco, mentre il mondo occidentale sospende i fondi all’Unrwa, l’unica via di fuga dall’orrore che Aaron Bushnell ha trovato è stata la morte, gridando “Palestina libera” finché il fuoco gliel’ha permesso.

  • Autore articolo
    Martina Stefanoni
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    M7 del 08/11/2025 - Roba da matti. La salute mentale nelle carceri lombarde

    Se ne parla solo quando c'è un suicidio, ma il tema della salute mentale negli istituti penitenziari va ben oltre i fatti di cronaca nera ed è un tema che investe chiunque abbia a che fare col carcere. Detenuti e detenute in primis, ma anche chi tra quelle mura ci lavora: educatori e educatrici, psicologi e psicologhe, agenti di polizia penitenziaria. Tra sovraffollamento, scarse condizioni igienico-sanitarie e politiche poco umane, si rischia di impazzire. Ne abbiamo parlato con il consigliere comunale di Milano Alessandro Giungi, il consigliere regionale lombardo Luca Paladini, il nuovo garante dei detenuti di Milano Luigi Pagano, col coordinatore del dipartimento di amministrazione penitenziaria della Fp-Cgil della Lombardia Andrea De Santo e con la coordinatrice di Antigone Lombardia Valeria Verdolini.

    M7 – il settimanale di Metroregione - 08-11-2025

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