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A scuola, “separati ma uguali”

Nell’autunno del 1951 Oliver L. Brown si reca con sua figlia Linda, nove anni, alla Sumner Elementary di Topeka, Kansas, una scuola destinata ai bianchi ma vicina alla loro abitazione, per chiedere l’iscrizione della bambina.

La domanda è subito respinta.

Brown non si è mosso di propria iniziativa: come lui, altri genitori afro-americani di Topeka si rivolgono alle scuole più vicine alle loro case, e vengono indirizzati a quelle per bambini neri che sono più lontane.

Al principio degli anni Cinquanta la Naacp, l’”Associazione nazionale per il progresso della gente di colore”, sta intensificando l’utilizzo delle cause legali contro la discriminazione e la segregazione: i Brown sono una famiglia rispettata a Topeka, attiva nella comunità, e legata alla chiesa protestante, e quindi particolarmente congeniali alla strategia della Naacp.

Oliver Brown viene convinto da uno dei leader locali dell’associazione, suo amico dall’infanzia. La legge del Kansas autorizzava in effetti le città con più di 15 mila abitanti a creare scuole separate. La base legale della separazione si basava sulla sentenza della Corte Suprema nel caso Plessy v. Ferguson del 1896, con cui, esprimendosi a proposito della segregazione nelle ferrovie, la Corte aveva sancito il principio “separati ma uguali”. Vale a dire: laddove a bianchi e neri in un certo settore sono assicurate paritarie condizioni di trattamento, gli Stati hanno la facoltà di praticare in quel settore la segregazione.

La sentenza aveva fatto giurisprudenza e prodotto conseguenze molto rilevanti proprio sulla legittimità della segregazione in ambito scolastico. Naturalmente le condizioni paritarie di trattamento nei decenni successivi erano state in tanti settori del tutto teoriche; comunque si continuò a fare riferimento alla sentenza Plessy v. Ferguson.

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I genitori di Topeka, sensibilizzati dalla Naacp, fanno però ricorso: gli avvocati dell’organizzazione scelgono di mettere il nome dell’unico uomo, Oliver Brown, in cima alla lista dei tredici ricorrenti. Intanto in altri Stati, South Carolina, Delaware, Virginia, altri genitori di bambini neri presentano ricorsi analoghi.

Il motivo per cui tutta questa vicenda è passata alla storia – ed è entrata nella giurisprudenza americana come sentenza Brown v. Board of Education – è che quando i diversi casi furono sottoposti all’attenzione della Corte Suprema, vennero riuniti in un unico “mazzo” sotto l’intestazione “Brown e altri contro l’ufficio scolastico di Topeka e altri”.

Il ricorso Brown v. Board of Education of Topeka aveva comunque effettivamente una caratteristica particolare ed esemplare. La causa Brown v. Board of Education viene infatti intentata non lamentando che nelle scuole per neri di Topeka non siano assicurate opportunità pari a quelle delle scuole per bianchi, ma sostenendo direttamente che la segregazione lede un diritto e ha di per sé degli effetti negativi sui bambini neri.

I ricorsi vengono intanto vagliati da Corti di primo grado. La risposta è diversa da caso a caso, da Stato a Stato, ma alcune delle motivazioni indicano come sia ormai in atto, per esempio negli alti gradi della giustizia, un diffuso cambiamento di sensibilità rispetto ai rapporti razziali.

La Corte di primo grado che prende in esame il caso Brown conviene con le ragioni dei ricorrenti, e cioè riconosce che la segregazione è dannosa per gli scolari neri; ma, constatando che nelle scuole per neri vengono assicurate condizioni non diverse da quelle delle scuole per bianchi, ritiene di non poter fare altro che fare riferimento alla sentenza Plessy v. Ferguson, e considerare quindi la segregazione legittima.

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Nel Delaware la Corte ordina l’ammissione degli scolari neri nelle scuole bianche, però non esclude che la questione possa essere riesaminata dopo che nelle scuole nere le condizioni di studio vengano portate sullo stesso piano di quelle delle scuole bianche. In South Carolina viene riconosciuta la disparità di condizioni, cui si ordina di porre subito rimedio, ma rifiutando di far ammettere i ricorrenti neri nelle scuole bianche. Uno dei giudici del South Carolina, Julius Waties Waring, decide però di smarcarsi dalla sentenza, e mette nero su bianco un’opinione divergente, in cui esprime la sua indignazione: “se questa è la giustizia fornita da questa Corte, io non vi voglia avere alcuna parte”. Waring fa del sarcasmo sul fatto che si tratti semplicemente di cambiare qualche lampadina nelle scuole per neri, ma soprattutto dice due cose fondamentali: che la soluzione “separati ma uguali è “una falsa dottrina, buona per gli ingenui”, e soprattutto – ancora più importante, perché questa affermazione contiene un argomento teorico cruciale, che anticipa le riflessioni della Corte Suprema – che “l’educazione separata è intrinsecamente disuguale”.

Quando prende il via l’iter di Brown v. Board of Education, il presidente è ancora il democratico Harry Truman, che ha ordinato la desegregazione delle forze armate: il governo federale dichiara formalmente il proprio interesse al risultato del processo e si esprime contro la costituzionalità della segregazione razziale, affermando anche che la segregazione nuoce all’immagine degli Stati Uniti e va contro i loro interessi a livello internazionale.

Il momento è delicato: siamo in epoca di guerra fredda e dal 1950 gli Stati Uniti sono impegnati nella guerra di Corea. Richiesta di pronunciarsi sulle disomogenee sentenze delle Corti di primo grado, la Corte Suprema prende in mano la materia. Ma nel 1952 intanto a Truman succede il repubblicano Dwight Eisenhower, già comandante in capo delle forze alleate durante la seconda guerra mondiale. Tra Eisenhower e gli afroamericani, fra cui è vivo il culto di Roosvelt, non c’è feeling. Il blues, che negli anni del New Deal raramente ha avuto degli atteggiamenti politicamente critici, è adesso non di rado esplicito: nel suo Democrat Blues, inciso nel 1954, ma a quanto pare concepito già nel ’52, il bluesman di Detroit John “Bobo” Jenkins rimpiange i democratici, che negli anni della Depressione hanno rimesso le cose in piedi, e guarda con speranza alle elezioni del 1956.

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Investita della questione, nel 1952 la Corte Suprema si divide sul problema sollevato dall’insieme di cause raccolte sotto l’intestazione Brown v. Board of Education. Quattro giudici ritengono la segregazione illegale, ma due, fra cui il presidente, continuano a considerare valida la sentenza Plessy v. Ferguson del 1896, e rinviano la decisione all’anno successivo: prima che ci si arrivi il presidente della Corte però muore.

La nomina del nuovo presidente della Corte tocca ormai ad Eisenhower. Classe 1890, ultimo presidente degli Stati Uniti ad essere nato nell’Ottocento, Dwight Eisenhower è del Texas, dove fin da bambino ha interiorizzato i valori e le tradizioni del Sud confederato, e nella sua campagna elettorale non si è particolarmente scaldato sui diritti civili dei neri: faccenda che lo preoccupa – molto più che per la sostanza del problema – soprattutto per l’arma che può fornire alla propaganda comunista e antiamericana a livello internazionale.

Con in ballo l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, Eisenhower non può cambiare rotta rispetto al suo predecessore: dopo la sua elezione il Dipartimento della giustizia mantiene la stessa posizione antisegregazionista adottata con Truman. Per sostituire il defunto presidente della Corte Suprema, Eisenhower sceglie Earl Warren, governatore repubblicano della California. Eisenhower sa che Warren è contrario alla segregazione nelle scuole, e facendolo diventare presidente della Corte indica chiaramente alla Corte Suprema che decisione auspica sulla causa Brown v. Board of Education. Con la nomina nel 1953 di Warren, i membri della corte contrari alla segregazione passano da quattro su sei a cinque su sei, e questa volta hanno il presidente della Corte dalla loro parte.

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Con la scelta di Warren, Eisenhower non sta tuttavia pensando di scrivere una grande pagina di storia, anzi non lo desidera affatto. Forse però chi sta pensando di scriverla è proprio Warren. Se sul piano dei diritti dei neri deve fare di necessità virtù, d’altro canto durante la sua presidenza Eisenhower non sembra avere molto a cuore le condizioni materiali e di vita degli afro-americani, i quali lo ricambiano con non straordinaria simpatia, come testimonia fra l’altro Eisenhower Blues, un brano del bluesman J.B. Lenoir, che si era già distinto (vedi puntata precedente) per una canzone in cui non manifestava un grande entusiasmo per la guerra di Corea.

In una canzone che ha il coraggio di intitolare direttamente al presidente, uscita nel 1954, lo stesso anno della sentenza della Corte Suprema, Lenoir lamenta che sul piano economico e sociale sotto Eisenhower non si vedono per i neri grandi progressi.

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  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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