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Tsai Ing-Wen, prima donna presidente

AGGIORNAMENTO h 15.00: I pronostici dell’inizio sono stati rispettati. Il presidente di Taiwan da oggi è Tsai Ing-Wen, la prima donna a guidare un Paese di lingua cinese. Il presidente del Kuomintang (Kmt) Eric Chu ha ammesso la sconfitta. Il responso delle urne, chiuse alle 16, dà Tsai avanti con un vantaggio incolmabile. Il dato parziale la vede superare il 60 per cento delle preferenze, a fronte del 30 di Eric Chu. 

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L’ANALISI PRIMA DEL VOTO DI GABRIELE BATTAGLIA

Una cosa si sa con certezza: il presidente taiwanese cambierà e sarà con ogni probabilità Tsai Ing-wen, presidente del Partito democratico progressista, oggi all’opposizione. Ci sono poche o nulle possibilità per Eric Chu, il candidato del Kuomintang, il Partito nazionalista. Tsai sarà così la prima donna leader dell’ex Formosa, che ha introdotto libere elezioni presidenziali solo vent’anni fa.

È ancora in dubbio invece la composizione del parlamento che uscirà dalle concomitanti elezioni legislative, ma anche qui si ipotizza un trionfo dei democratici. L’accoppiata presidenza-maggioranza in parlamento consentirebbe al partito indipendentista di avere poi ampi margini di movimento. I primi risultati si sapranno nel pomeriggio di sabato. Quindi Taiwan proclamerà la propria indipendenza anche formale dalla Repubblica Popolare? È molto improbabile: Tsai ha già specificato che manterrà lo status quo nelle relazioni con la terraferma, che si basano sul principio di “una sola Cina”; intanto, punterà soprattutto su un’agenda social-riformista in politica interna.

È proprio sulle questioni domestiche – un’economia traballante e la poca appetibilità delle promesse che arrivano dall’altra parte dello stretto – che il Kuomintang ha perso terreno e il Partito democratico prepara la propria salita al potere. Il presidente ancora in carica, Ma Ying-jeou, si è giocato tutto in un graduale avvicinamento con la Cina popolare, culminato nei colloqui con Xi Jinping, a Singapore, nello scorso novembre: il primo incontro tra i leader delle due parti dal 1949.

Tuttavia, oggi sull’isola i salari sono stagnanti mentre i prezzi crescono. A beneficiare delle relazioni con Pechino sono soprattutto gli imprenditori che investono e producono al di là dello stretto, ma i recenti chiari di luna dell’economia cinese e la crescita dei salari anche nella Repubblica Popolare hanno come effetto la chiusura delle manifatture e l’esodo degli investimenti taiwanesi verso lidi più promettenti. Insomma, basare tutta la propria strategia economica sul legame privilegiato con i dirimpettai del continente non è più così interessante per la comunità degli affari, mentre giovani e classi subalterne temono il dumping sociale proveniente dalla Cina.

Un giovane taiwanese ci ha spiegato: “Non vogliamo staccarci dalla Repubblica Popolare, vogliamo semplicemente esserle un po’ meno legati”. Il rapporto con Pechino, visto da Taipei, è un rubinetto che si chiude e si apre in base alle circostanze del momento. E tra le circostanze attuali non dimentichiamo che il modello “un Paese, due sistemi” – adottato a Hong Kong – è entrato in crisi, con il Movimento degli ombrelli dell’autunno 2014 e le sempre più soffocanti pressioni di Pechino sulle libertà della zona amministrativa speciale: la recente sparizione dei librai che promuovevano opere critiche verso il governo cinese inquieta.

I taiwanesi guardano così con interesse e timore all’ex colonia britannica e si tengono strette le proprie conquiste civili, sociali, democratiche, senza però proclamare a gran voce un’indipendenza che provocherebbe un’escalation tra i due lati dello stretto. Nel 1996, per lanciare un avvertimento contro l’elezione di un candidato indipendentista, i cinesi lanciarono un paio di missili nella acque dello stretto di Formosa, suscitando anche l’allarme della flotta statunitense. Difficile che oggi si ripeta una situazione simile, ma meglio andarci con le molle: nelle diverse Cine, lo status quo – cioè una non-soluzione – è molto spesso la migliore soluzione.

Non mancano le curiosità tra i candidati allo yuan legislativo, il parlamento di Taiwan. Si presenterà per esempio nelle fila di un partitino minore, Wu’er Kaixi, 47enne uiguro, già leader studentesco di piazza Tian’anmen nel 1989. Una specie di star della dissidenza anti-Pechino, soprattutto negli Stati Uniti. Ma ci sono anche candidati espressi dal Movimento dei girasoli che nel 2014 arrivò perfino ad occupare il parlamento per protestare contro un trattato di libero scambio nel settore dei servizi tra Taiwan e Repubblica Popolare. In questo caso, il nome più in vista è quello di Huang Kuo-chang.

  • Autore articolo
    Gabriele Battaglia
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    La fiamma e il nemico antifascista. Il legame ideologico del partito di Giorgia Meloni col passato neofascista: dai simboli ai contatti pericolosi con il mondo dell’estrema destra eversiva (Pino Rauti, il generale Gianadelio Maletti). E poi l’idea guida sull’antifascismo di Fratelli d’Italia: l’antifascismo è quello militante e con le spranghe in mano (le dichiarazioni di Meloni e Lollobrigida sono lì a dimostrarlo). A Pubblica la storica Simona Colarizi (autrice di “La resistenza lunga. Storia dell’antifascismo 1919-1945”, Laterza 2023) risponde a diversi interrogativi, a partire dal caso Scurati e dalla censura in Rai. Che cosa racconta il legame di FdI con i vecchi simboli della destra? Qual è il segno delle politiche del governo Meloni? Conservatore, reazionario o liberista? E l’antifascismo?

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