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Una sera fra i senzatetto, con la Ronda della Carità di Milano

senzatetto milano

Intorno alle 10 di sera, in questi giorni alle porte dell’inverno, nel centro storico di Milano la temperatura scende a sfiorare gli zero gradi. A stare fuori a lungo, le punte delle dita di mani e piedi cominciano a far male per il freddo. I volontari e gli operatori dell’associazione Ronda Carità e Solidarietà conoscono bene questa sensazione. La provano, la cercano, la scelgono ogni volta che escono con l’unità mobile per prendersi cura dei senzatetto.

Con un piccolo camper, accostano i marciapiedi delle colonne di San Lorenzo, di via Torino e via Mazzini, vanno in cerca di rifugi di cartone e sacchi a pelo. Spesso, insieme a pochi vestiti, sono le uniche proprietà delle persone senzatetto. Persone che, davanti all’offerta di un posto letto in dormitorio, vedono davanti a sé solo una lunga sequela di ostacoli e per questo magari scelgono di restare in strada. Davide Pisu, educatore e coordinatore del punto Ronda, spiega la loro condizione: “Le persone che seguiamo in strada tendono a essere irriducibili, non vogliono accedere ai dormitori. Molto spesso per loro l’iter è insostenibile: andare al centro Sammartini, prendere l’appuntamento, stare in coda con cinquanta o cento persone, fare il test di Mantoux per verificare di non avere la tubercolosi, aspettare tre giorni per poi tornare al centro. Spesso non hanno la capacità di gestire le tempistiche richieste”.

Il percorso della serata lo definiscono nomi e storie che assumono i lineamenti di un viso o restano sospesi in un margine di incertezza. Qualcuno magari si è spostato dall’angolo della chiesa o dalla vetrina sotto i portici dove di solito trascorre la notte. Una segnalazione fatta al centralino delle associazioni messe in rete dal Comune può non trovare riscontro. Chi invece segue le proprie abitudini incontra i volti familiari di volontari che li conoscono per nome.

Un thermos di tè bollente, un panino con un succo di frutta, una coperta pesante. L’offerta di qualcosa da mangiare o con cui riscaldarsi non è cosa da poco per chi vive in strada, soprattutto in questo periodo. Solo però l’incontro costante e la relazione nel tempo fanno sì che ci sia almeno una possibilità di recuperare una di queste persone dai margini della società. La differenza può farla soprattutto la spontanea sincerità di un volontario o di una volontaria, dice ancora Davide Pisu: “Io arrivo da una persona in strada, mi presento, dico che sono un educatore o un assistente sociale e nove volte su dieci sono già tagliato fuori. Probabilmente con queste figure loro hanno già incontrato troppe porte chiuse. Se invece chi hanno davanti è un volontario, un pari, quasi sempre la persona è molto meno oppositiva davanti al tentativo di iniziare una relazione”.

In strada regole fisse non esistono. S’incrociano senzatetto con ritardi così come ex professionisti. Chi ha problemi di tossicodipendenza o alcolismo e chi sembra protetto da un’aura di serena invincibilità. Qualcuno non riesce a risollevarsi anche per inefficienza dello Stato e in questo caso, convivere con la propria condizione sembra ancor più complicato. Nabil per anni ha fatto il cuoco, ma quando ha perso casa e lavoro gli è scaduto il permesso di soggiorno. Da quasi cinque anni cerca invano di avere nuovi documenti. Per il momento, gli è negato ogni percorso di assistenza. Vive il suo stare in strada quasi come una punizione: “È un inferno per me, non riesco ad abituarmi a vivere a contatto con chi è in strada da vent’anni. Ormai ce l’hanno nel sangue, è la verità, o per scelta o perché se entri puoi non uscirne più. Psicologicamente ti ammali. Mi sento senza dignità, davvero. Perché se non hai la casa veramente non hai la dignità, è inutile”.

Recuperare una persona che ha vissuto in strada per un anno può richiedere un lavoro lungo anche tre volte tanto, spiegano dalla Ronda. Le associazioni di volontariato spesso coprono i vuoti delle istituzioni, compensano con la loro energia l’inerzia e l’indifferenza che rischiano di affondare i senzatetto. Nella tappa finale della serata, accompagniamo Daniele, il volontario che guida la spedizione: “Qui siamo in zona Isola, vicino a porta Garibaldi e corso Como. Una volta parcheggiavamo il camper lì in mezzo, adesso non possiamo più farlo: ci assalgono, vedi? Sono molto aggressivi, fanno un commercio informale di giacche e sacchi a pelo, diventa difficile parlare con loro e capirsi”.

A pochi metri da auto di lusso che sfrecciano nel silenzio, da locali dove si esce con sciarpe e cappotti eleganti, ci sono almeno una decina di persone che dormono per terra, vulnerabili fino alla prostrazione. “Un altro posto simile a questo è in via Solferino – racconta Daniele – c’è una piccola galleria dove si ride, si scherza, si beve nei locali. Loro invece dormono sotto le vetrine dove si vende un paio di scarpe a 350 euro”.

La paziente e serena perseveranza con cui la Ronda costruisce legami con alcuni senzatetto sembra un invito a fare esercizio di complessità. Probabilmente è quanto di più lontano si possa immaginare dalla tentazione di sbrigare questo problema attingendo alle categorie dell’ordine e del decoro. L’importante è mettere sempre al primo posto le persone, sembra suggerire Daniele con le sue parole: “Bisogna combattere la povertà, non i poveri. Invece quando arrivano il Natale, le Feste, si interviene come se si volesse far sparire il “degrado” che c’è nel centro. Milano è diventata una città carissima, con il Covid la situazione è andata peggiorando: se perdi il posto di lavoro e non hai una rete sociale a cui appoggiarti finire in strada è un attimo”. Il cuore del discorso per Daniele sta nella volontà di affrontare il problema, ha la sensazione che manchi la necessaria decisione per far funzionare le sinergie che occorrono: “Non è semplice, per l’amor del cielo – conclude – però bisogna aiutare queste persone. Cosa facciamo, le abbandoniamo al loro destino? No, non esiste, non è possibile. Anche se decidono di vivere per strada”.

Luca Parena

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    L’Europa e il bellicismo crescente delle sue classi dirigenti. L’ultimo caso, quello dell’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone e la postura aggressiva che dovrebbe tenere la Nato. Cosa possono fare il pensiero e la cultura della pace per contrastare l’escalation bellicista e la normalizzazione della violenza? Le risposte possono non essere quelle consuete, soprattutto perché in Occidente stiamo assistendo ad un cambio delle coordinate geopolitiche costruite negli ultimi ottant’anni. Un esempio. Il settimanale «The Economist» ha scritto nella sua rubrica di geopolitica «The Telegram» apparsa oggi sulle pagine online: «In Europa le preoccupazioni per l’inaffidabilità dell’America sotto Donald Trump stanno lasciando il posto a un timore più grande: che, pur presentandosi come il campione della civiltà occidentale, egli consideri ormai le democrazie occidentali reali come avversarie. “Nella Washington di oggi” - scrive il nostro editorialista di The Telegram - l’Europa “è spesso descritta con maggiore disprezzo rispetto alla Cina o alla Russia”. Pubblica oggi ha ospitato Donatella Della Porta, scienziata della politica, e Agostino Giovagnoli, storico.

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