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«Tradita la mia idea di partito della nazione»

Alfredo Reichlin, 90 anni, è presidente del Centro studi di politiche economiche (Cespe).

La sua biografia politica comincia nella Roma occupata dai nazisti, oltre 70 anni fa. Sono gli anni in cui Reichlin – partigiano non ancora ventenne – frequenta il liceo Tasso. Lì incontra come compagno di classe Luigi Pintor, che sarà poi tra i fondatori del gruppo del manifesto alla fine degli anni Sessanta.

«Avevo 18 anni  racconta Reichlin a Memos. Presi la licenza liceale nel luglio del 1943, poco dopo ci fu il 25 luglio e la caduta del fascismo e poi l’8 settembre, l’armistizio, l’occupazione di Roma. Io, Luigi e altri, un gruppetto che eravamo già comunisti, collegati con il partito comunista clandestino, prendemmo le armi e entrammo nei Gap. Facemmo gli attentati, di cui poi si è tanto parlato e che adesso è inutile che io rievochi perché sono stati – come può immaginare – mesi terribili: eravamo allo sbando, passando di casa in casa, nascondendosi e sfuggendo alle SS».

Dal 1945 Alfredo Reichlin inizia a lavorare all’Unità, di cui diventa direttore nel 1956.

È stato poi segretario regionale del Pci in Puglia, deputato dal 1968 al 1994. Negli anni Sessanta le sue posizioni sono vicine a quelle di Pietro Ingrao, leader della sinistra del Pci. Dal 1973 Reichlin ha fatto parte della direzione del partito e della segreteria di Enrico Berlinguer.

Alfredo Reichlin e Enrico Berlinguer

È uno dei fondatori del Partito democratico. È stato presidente della commissione per la stesura del “Manifesto dei Valori” del Pd.

L’intervista prosegue passando bruscamente dagli anni della Roma occupata dai nazisti all’oggi, alla discussione di questi giorni in Senato sulle unioni civili. In gioco c’è una questione di diritti, elementari e fondamentali. Negli anni Settanta il parlamento approvava la legge sul divorzio (1970), la riforma del diritto di famiglia (1975), quella sull’aborto (1978), solo per citarne alcune. Oggi, invece, non si riesce a fare un passo avanti su diritti elementari per gli omosessuali. Cosa ne pensa, Reichlin?

«È una vergogna. È evidente che la vicenda è anche dominata da problemi di coscienza, ma soprattutto dal caos politico e dalla riduzione della politica ormai a un gioco senza senso, mors tua vita mea. Il Pd sta tenendo il punto, ma non è che in quell’aula si stia discutendo con la passione di chi vuole risolvere un grandissimo problema di diritti civili. Stanno discutendo, invece, su come dare un colpo in quel posto a Tizio o a Caio. Questa è la vergogna: il degrado della politica. Naturalmente c’è anche un aspetto di sostanza, come la questione dell’adozione. C’è un gruppo cattolico che è pronto a fare ciò che non fecero quando Ruini ci impedì di legiferare allora sui diritti civili».

Perché sembra impossibile oggi, anche a causa dei veti dei cattolici, ciò che fu possibile negli anni Settanta?

«Perché il partito comunista – dice sorridendo Reichlin – era il partito comunista! Avevamo in mano un grande potere e consenso. Quando i radicali presero l’iniziativa, e con Berlinguer decidemmo di seguirli, non ci fu spazio per nessuno. La legge di oggi è fatta male, però è una vergogna che non venga approvata».

In questi ultimi due anni lei è stato più volte evocato per quell’espressione “partito della nazione” che usò per commentare il 40 per cento del Pd alle elezioni europee. Lei scrisse: “Renzi ha vinto perché si è presentato come segretario del partito della nazione”. Cosa voleva dire con quell’espressione?

«È semplicissimo. La mia formazione politica, la mia cultura politica, è quella del Pci. Il ruolo di un partito diventa vincente o perdente, grande o piccolo, se assolve a una funzione “nazionale”. Un partito è un’idea del Paese che va al di là dell’immediato. È un disegno. Questo è un par-ti-to – scandisce Reichlin -. Io ho sempre pensato, come Togliatti, che il ruolo del Pci in Italia non fosse quello di fare come in Russia, ma di portare a compimento un grande progetto di riforma del paese. Un progetto lasciato a metà dal Risorgimento e che il fascismo aveva addirittura travolto. Il nostro obiettivo non era fare come in Russia, conquistare il Palazzo d’Inverno e fare una rivoluzione proletaria. Il nostro obiettivo era – prosegue Reichlin – instaurare in Italia un nuovo regime che si basasse fondamentalmente sul ridare la parola al popolo».

Perché questo suo ragionamento dovrebbe aver a che fare con il Pd di Renzi di due anni fa?

«Io parto sempre dalle cose, dalle situazioni concrete. Ho aderito al Partito democratico con l’idea che il Pd, essendo la confluenza di grandi tradizioni popolari come quella socialista e cattolica, potesse dar vita a un nuovo partito che fosse non la pura ripetizione del vecchio, ma un partito capace di prendere in mano il destino dell’Italia. Il nostro è un paese che sta attraversando una crisi profondissima che Renzi non ha affatto risolto. Noi siamo di fronte a problemi giganteschi: non è stato risolto il problema del Mezzogiorno, del rapporto tra dirigenti e diretti, dello sviluppo civile e culturale dello stato democratico e della magistratura. Quando scrissi quell’articolo, due anni fa, avevo l’impressione che l’ondata grillina stesse mettedendo in discussione qualcosa di profondo nell’equilibrio democratico del paese. Di conseguenza, il voto al Pd – al di là del merito o del demerito dei suoi dirigenti attuali – rappresentava un voto di difesa dell’equilibrio democratico».

Ma oggi, visto quanto accaduto dal giugno del 2014, lei lo riscriverebbe quell’articolo sul partito della nazione?

«Lo riscriverei polemicamente. Direi a Renzi che ha tradito questa cosa (l’idea di un partito che prende in mano il destino dell’Italia, ndr). Questa linea è esattamente il contrario della linea trasformista di un partito senza storia e senza ideologia che prende i voti dovi li trova».

Il tradimento avviene quando si mette insieme il Pd e Verdini oppure il Pd e Marchionne?

«Esatto, anche se non userei queste parole. Bisogna comunque chiedersi: questo Paese su che asse si governa? Su un asse populista, trasformista o su un asse riformista, intendendo per riformismo l’unione tra la parte di sinistra e quella moderata, democratica? Questo è il punto. Renzi sta oscillando, non tiene questo punto. Per questa ragione oggi sono molto critico con il partito democratico. Penso che l’Italia sia un Paese complicato, che non possa essere governato se non attraverso un profondo coinvolgimento delle masse popolari. Penso che bisognerebbe rilanciare, senza ambiguità e senza fare confusione, l’idea di un’alleanza. E quanto dice per esempio il sindaco di Milano Pisapia. Questa è secondo me la linea con la quale concorderei».

L’Italia e l’Europa. Renzi critica le politiche di austerità. Ma anche in Italia abbiamo visto il risvolto di quelle politiche che non riguardano solo i conti pubblici, ma anche il lavoro. Penso al Jobs Act. Perché la sinistra riformista non è riuscita a contrastarle, anzi le ha condivise se pensiamo alle nuove regole del mercato del lavoro in Italia?

«Penso due cose. Bisogna avere il senso della storia e riconoscere che siamo stati sconfitti. Tutto ciò non avviene per caso, ma perché la storia è andata in un certo modo. Da un lato – dice Reichlin partendo da molto lontano – è caduta l’Urss e il movimento comunista; dall’altro è stata fatta una scelta drastica da parte del gruppo di comando del capitalismo internazionale. Penso a Thatcher e Reagan e alla rottura di quello che si chiama il “compromesso democratico” su cui si reggeva l’accordo tra la socialdemocrazia e le forze capitalistiche. Si è creato un enorme divario tra la potenza di un’economia globalizzata e mondializzata (che può spostare con un click enormi masse di denaro) e il potere della politica sempre più ridotto perché lo stato nazione non è più una misura sufficiente. La politica a cosa serve se non comanda? In questo momento comandano i mercati».

Ma la politica che ha ceduto potere ai mercati non è stata solo quella di Thatcher e Reagan, ma anche quella della sinistra riformista in Europa, penso a Tony Blair e a Massimo D’Alema?

«Anch’io lo penso. È una sinistra che ha ritenuto di fare il “riformismo senza popolo”, cito un’espressione che ho inventato io. Una sinistra che non ha tenuto conto che l’economia si stava mangiando la politica, ridotta a gestione dell’immediato e del contingente. Le grandi decisioni, invece, venivano prese dai mercati mondiali. Ciò non succedeva quarant’anni fa. A quell’epoca Agnelli era potente, e sappiamo quanto, ma Lama o Trentin avevano dietro di sé un esercito e si combatteva da pari a pari facendo le riforme. Loro dovevano tener conto di noi, e noi di loro. Questo equilibrio si è rotto. Da qui dobbiamo partire, da una sconfitta storica. Poi dentro questa sconfitta si poteva combattere in un altro modo, facendosi rincoglionire meno dall’idea del mercato e del liberalismo».

Oggi quel “rincoglionimento” – come dice lei – è ancora presente negli eredi di quella sinistra riformista di Blair e D’Alema?

«Sì – risponde Reichlin sorridendo – è ancora presente».

Spostiamoci negli Stati Uniti. Il caso Bernie Sanders, il senatore del Vermont, socialista per sua stessa definizione, che parla di uguaglianza, giustizia sociale, redistribuzione dei redditi. Un linguaggio molto differente da quello moderato dei leader riformisti europei, come Hollande o Renzi. Come mai?

«Adesso non esageriamo! – dice Reichlin. Non guardiamo solo a questi leader. Ci sono dei movimenti, non è che non stia succedendo niente. E poi, comunque, il fallimento delle politiche di rigore finanziario diventa ogni giorno più insopportabile. Basta vedere come parla il papa».

Sì, ma del consenso che sta avendo Sanders negli Stati Uniti cosa pensa?

«Penso – conclude Reichlin – che dimostri che l’ingiustizia non è sopportabile oltre certi limiti. Si sta rompendo qualche cosa. Leggo che la nuova generazione, quella dei ventenni, non crede più alle favole a cui hanno creduto i loro padri. La gioventù è la prima vittima di questo tipo di economia che non produce lavoro».

Ascolta tutta la puntata di Memos

  • Autore articolo
    Raffaele Liguori
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    Quando le povertà dei padri e delle madri ricadono sui figli e sulle figlie. In Italia il titolo di studio dei genitori condiziona le opportunità di di vita dei minori. La povertà educativa è diventata di fatto ereditaria. Sono gli ultimi dati dell’Istat a raccontare questa ingiustizia. Il 34% dei figli di genitori con un titolo di studio inferiore o uguale alla licenza media vive in condizione di “deprivazione materiale e sociale”. La percentuale crolla al 3% se i genitori sono laureati. L'ereditarietà della povertà educativa è anche un tradimento di un principio fondante della Repubblica. L’articolo 3 della nostra Costituzione, la seconda parte, assegna un compito preciso allo stato, e cioè quello di “rimuovere gli ostacoli” che limitano di fatto l’uguaglianza tra i cittadini. Un compito evidentemente non svolto, vista la permanenza della disuguaglianza. Pubblica ha ospitato oggi la sociologa Chiara Saraceno.

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