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“Sposa il tuo stupratore”. In venti paesi nel mondo, così dice la legge

Sposa il tuo stupratore. Non è semplicemente una frase agghiacciante, ma in alcuni paesi è una legge. E’ nota come “Marry-your-rapist Law”, ed è in vigore – attualmente – in 20 paesi nel mondo.Venti paesi in cui il matrimonio viene considerato la cura legale per lo stupro, un modo con cui gli stupratori possono evitare il carcere o qualunque tipo di pena per il loro crimine. Una legge che per le donne rappresenta una doppia condanna. Le donne stuprate, nei paesi in cui vige la “Marry your rapist law”, non solo sono costrette a convivere per sempre con il trauma e la ferita dello stupro, ma anche – fisicamente – con il loro carnefice.

Il rapporto annuale pubblicato dal United Nations Population Fund cita – tra i 20 che prevedono questo sistema – paesi come la Thailandia, il Kuwait, la Bolivia, la Serbia e la Russia. In Kuwait, ad esempio, lo stupratore può sposare la sua vittima se ha il permesso del guardiano di lei, mentre in Russia, se la vittima ha meno di 16 anni e lo stupratore più di 18, può sposarla ed evitarsi ogni tipo di punizione. Secondo Dima Dabbous, direttrice dell’organizzazione per i diritti umani Equality Now nelle regioni del Medio Oriente e dell’Africa, citata nel report, cambiare queste regole è molto difficile, ma non impossibile. In Marocco, per esempio, la legge è stata abrogata nel 2013 dopo che una ragazza si era tolta la vita dopo essere stata costretta a sposare l’uomo che l’aveva stuprata.

L’esempio del Marocco fu seguito da Giordania, Palestina, Libano e Tunisia. Il problema, però, è anche legato a quei paesi in cui la giurisdizione su questo argomento è confusa. In particolare, sono circa 43 i paesi in non esiste una legge che controlli – e punisca – il cosiddetto “Marital Rape”, lo stupro coniugale. In questi paesi, sostanzialmente, lo stupro all’interno del matrimonio è accettato e anzi, previsto. Di fatto, infatti, in questi paesi non viene considerato stupro, dato che le leggi legate alla tradizione patriarcale vigenti in questi paesi stabiliscono che nel momento in cui una donna si lega con il matrimonio ad un uomo, il suo corpo diventa di proprietà del marito. In questo modo, la donna perde completamente il potere di dire si o no. E’ il caso dell’India, ad esempio, dove poco più di un mese fa, il presidente della Corte suprema nel corso di un’udienza ha suggerito ad un uomo accusato di aver stuprato una studentessa minorenne disposare la sua vittima per evitare di finire in carcere. Le sue parole, sarebbero state: “Se la sposi, noi ti possiamo aiutare, altrimenti perderai il tuo lavoro e andrai in carcere”. Questo vuoto legislativo rappresenta un problema enorme per l’India, un paese dove viene denunciato uno stupro ogni 15 minuti, dove la media giornaliera è di 87 violenze sessuali al giorno e dove questo tipo di reati cresce con una media annua del 7%.

Il caso specifico aveva sollevato l’opinione pubblica che ha richiesto le dimissioni del giudice, ma il problema è ben più radicato. Le leggi sullo stupro all’interno del matrimonio non sono l’unico modo con cui gli uomini affermano il proprio potere sulle donne. Secondo i dati presentati nel rapporto del United Nations Population Fund, raccolti in 57 paesi in tutto il mondo, solo il 55% delle donne, le ragazze e le bambine possono decidere liberamente del proprio corpo. Questo significa che poco meno di una donna ogni due non è libera non solo di dare o meno il suo consenso ad un rapporto sessuale, o decidere chi sposare, ma nemmeno se e quando richiedere cure mediche. Imprigionare il corpo delle donne equivale a imprigionare la sua essenza, ad annichilire il suo spirito. Ed è una pratica che deve finire.

Foto | Le proteste per uno stupro di gruppo di una ragazza di 19 anni avvenuto a Dalit girl, nello stato di Uttar Pradesh a ottobre del 2020

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    Martina Stefanoni
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    Il grande flop delle case della salute. Solo il 5% è pienamente funzionante. La denuncia del Pd lombardo

    Dovevano essere i presidi con cui ricostruire la sanità sul territorio in Lombardia, ma finora le case di comunità sono state un flop. 216 sono quelle previste entro la scadenza dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza che arriverà a giugno 2026. Al momento 140 hanno aperto, ma solo otto in tutta la regione (sei in provincia di Bergamo e due nel varesotto) hanno tutti i requisiti obbligatori previsti dalla legge. In totale sono meno del 6 percento. La denuncia è del gruppo consiliare del Partito democratico lombardo che ha fatto un accesso agli atti alla direzione generale Welfare per ognuna delle case di comunità attive in Lombardia. L’assessorato ha replicato che i numeri diffusi “sono usati in modo difforme dalla realtà. Le rilevazioni mostrano percentuali elevate di attuazione per la maggior parte dei servizi obbligatori”. Per il capogruppo del Pd al Pirellone, Pierfrancesco Majorino, “Regione Lombardia è in colpevole ritardo”.

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