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SanPa e il documentario true crime all’Italiana

SanPa

A sorpresa, il giorno prima della fine del 2020, Netflix ha pubblicato SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano: una serie doc in cinque parti, creata da Gianluca Neri e diretta da Cosima Spender, la prima produzione documentaria Netflix tutta italiana.

L’uscita di SanPa ha avuto l’effetto di una piccola esplosione: non solo è diventato immediatamente uno dei contenuti più visti della piattaforma nel nostro paese – al momento, è al terzo posto della top ten generale – ma soprattutto ha scatenato dibattiti, analisi, conversazioni, ha fatto emergere nuove testimonianze, ha riportato alla ribalta del discorso collettivo una vicenda che, per quanto avesse fatto scalpore all’epoca, sembrava oggi quasi dimenticata; e, con essa, un periodo storico preciso, un’altra faccia di quegli anni 80 che di solito ci vengono quasi sempre raccontati con nostalgia come fatti solo di edonismo, benessere e leggerezza.

Naturalmente l’inchiesta giornalistica televisiva è un genere che nella tv italiana ha una lunga onorata tradizione, eppure SanPa è qualcosa di un po’ diverso e forse anche per questo è sembrata a molti spettatori una “novità”: perché applica a un caso così profondamente e specificamente italiano il formato e il linguaggio tipici del genere true crime, un genere che negli ultimi cinque-sei anni si è reso protagonista di grandissimi successi internazionali.

Netflix, che ha prodotto uno dei primi esempi di questa tendenza, cioè Making a Murderer, ha il catalogo pieno di titoli, da Wild Wild Country a Tiger King, e perfino un’efficace e divertente parodia, American Vandal; ma il genere non è solo netflixiano, per esempio anche la prestigiosa HBO ha un ricco reparto documentari, e celebre fu il suo The Jinx, in cui un omicida mai condannato finì per confessare inavvertitamente la propria colpevolezza alle telecamere.

La rinascita del true crime – che a lungo è stato considerato come un genere di scarso valore proprio perché così immensamente popolare – è cominciata nel 2014 con un podcast, intitolato Serial e dedicato a un processo che si ipotizzava potesse aver condannato un innocente: il successo di questo podcast è stato tale da trascinare con sé la fruizione collettiva dei podcast tout court, che si è moltiplicata proprio negli ultimi anni. Ma la storia del true crime affonda le radici in un passato lontano perfino secoli – qualcuno ne fa risalire le origini a fascicoletti che nel XVI secolo venivano stampati e diffusi per raccontare i casi dei condannati a morte – o quantomeno all’Ottocento, con la nascita del giornalismo moderno e delle detective story e la diffusione di racconti a puntate più o meno scandalistici.

La differenza rispetto a un più canonico pezzo d’inchiesta sta nell’applicare alla ricostruzione storico-giudiziaria gli strumenti dello storytelling, producendo un racconto a puntate che costruisce personaggi, si svela in modo graduale, introduce colpi di scena, si interrompe sul più bello, per tenere il pubblico col fiato sospeso. Lo vediamo anche in SanPa, dove il racconto è aggregato attorno alla figura ingombrante e sempre sfuggente di Muccioli, il tipico antieroe da film, e popolato di piccoli e grandi personaggi da romanzo, e ogni episodio si chiude su un cliffhanger che ci spinge a proseguire compulsivamente la visione.

È una tecnica narrativa ambivalente, che da un lato incatena lo spettatore allo schermo, appassionandolo al racconto, dall’altro viaggia sempre sul filo del sensazionalismo e rischia di essere estremamente manipolatoria. Non è per forza un bene o un male: l’importante, come sempre, è essere consapevoli di come funziona ciò che stiamo guardando. Anche perché, visto il successo di SanPa, è probabile che Netflix ripeterà l’esperimento con altri, più o meno noti, casi italiani. Teniamoci pronti.

  • Autore articolo
    Alice Cucchetti
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