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Ripensare il possibile ai tempi del coronavirus: i consigli del filosofo Stefano Moriggi

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Il filosofo Stefano Moriggi è intervenuto a Radio Popolare per dare il proprio suggerimento sulle tecniche di sopravvivenza pratica che ormai da settimane stiamo suggerendo ai nostri ascoltatori e lettori.

Anche in un periodo di emergenza come quello che stiamo vivendo in queste settimane, sostiene Stefano Moriggi, è necessario trovare la bellezza: “Non possiamo far più quasi nulla di quello che potevamo fare. Proviamo quindi a pensare a cosa succederà quando usciremo nuovamente di casa, ma facciamolo con una mentalità diversa“.

L’intervista di Ira Rubini a Cult.

Bellezza e verità è un binomio che tu hai deciso di attraversare riflettendoci sopra.

Sì, perché troppe spesso bellezza e verità sono concepite come concetti che raccontano semplicemente cose vere o cose belle, mai come esperienze e mai come domande di senso sul Mondo. Lo si dovrebbe fare fin dai banchi di scuola, all’università e poi da cittadini. La verità è un’esperienza che si dovrebbe fare quotidianamente applicando gli strumenti concettuali e fisici di cui disponiamo. E così la bellezza. Dostoevskij di dice che non abbiamo attendere salvificamente la bellezza come un miracolo che ci cade sulla testa, ma la dobbiamo pensare e produrre. La bellezza è il risultato in forme espressive di una domanda di senso. Troppo spesso, invece, viene prodotta e somministrata nelle scuole, ma non solo, come una serie di concetti sui quali ci dobbiamo formare e che dobbiamo mandare a memoria. Questo è cosa buona e giusta se servisse soprattutto a formare la nostra immaginazione produttiva, come la definiva Kant. È la capacità di produrre forme che danno corpo a un senso. È questa la grande sfida della bellezza: anche un momento di crisi come questo è il tempo in cui dobbiamo tornare a pensare.
La crisi è il momento privilegiato dei filosofi. È il momento in cui le consuetudini si sospendono, il Mondo sembra sfuggire a quelle categorie che fino a un attimo prima sembravano comprenderlo perfettamente. E dunque il pensiero s’impone come dovere civile. La bellezza è questo dovere civile: il dovere di ripensare alle forme del Mondo, a come vogliamo abitarlo e quello che vogliamo essere. È anche la funzione mitopoietica dell’arte: la capacità di pensare una realtà diversa da quella che abbiamo vissuto fino ad oggi. Non un’immagine esclusivamente storicizzata, ma la capacità di pensare il possibile.

La bellezza va cercata proprio quando il buio è profondo. Possiamo tradurre questo concetto in un suggerimento per chi ci segue?

Al netto della tragicità del momento che stiamo vivendo, se ci pensiamo un secondo questo è un momento sommamente critico. Che ci piaccia o meno, le nostre abitudini quotidiane sono state sospese. Non possiamo far più quasi nulla di quello che potevamo fare. Proviamo a pensare a cosa succederà quando usciremo nuovamente di casa, ma facciamolo con una mentalità diversa. Forse dovremmo cominciare a pensare non più con una mentalità miracolistica, aspettando che arrivi la soluzione al problema che stiamo vivendo. Dovremo assumere una mentalità della gestione, non una mentalità della soluzione: che cittadini potremmo essere? Che forme di relazione potremmo progettare nelle professioni, nella quotidianità, nelle amicizie o nell’utilizzo delle tecnologie e nelle forme espressive dall’arte e della comunicazione? Forse è anche dal nostro quotidiano che possiamo provare a progettare nuove forme di senso e di bellezza?

A proposito di tecnologia, tu avevi pubblicato “A scuola con le tecnologie. Manuale di didattica digitalmente aumentata” e anche “Perché la tecnologia ci rende umani. La carne nelle sue riscritture sintetiche e digitali“. È una riflessione sulla tecnologia che tu, Stefano Moriggi, fai ormai da tempo.

Io sono convinto che noi non agiamo e non pensiamo indipendentemente dagli strumenti con cui ci siamo evoluti nello spazio e nel tempo. E questo lo sapevano benissimo gli antichi, ce lo spiega Platone ragionando sulla scrittura e potremo farlo fino ad arrivare alle tecnologie digitali. Pensare che esista un qualcosa che noi chiamiamo essere umano totalmente avulso dalla ricaduta proveniente dall’interazione con le tecnologie è un’astrazione più vicina alla superstizione che alla realtà. Adesso ci troviamo in un momento in cui le tecnologie non sono più una potenziale scelta a cui si può tranquillamente rinunciare. Le tecnologie sono diventate una necessità per garantire una qualche continuità della didattica o una qualche continuità di attività professionali.
Io, con un corso che sto tenendo con l’Università di Reggio Emilia, sto sfruttando il mio ambiente virtuale girando per le scuole e ospitando docenti di diverse scuole, monitorando quello che sta accadendo e come stanno gestendo le tecnologie. Uno degli aspetti interessanti che emerge è che la tecnologia digitale in questa fase viene percepita, in ambito didattico, come teledidattica: una didattica che puoi fare a distanza e che è alternativa alla presenza. Non è così. Queste tecnologie possono aumentare qualcosa che c’era già, sono l’aggiunta di strumenti che ti consentono di fare altro rispetto a quello che potevi fare in presenza. In questo stato di emergenza viene invece percepita come una forma ridotta ed equivoca, un’alternativa alla presenza. Spero però che quando avremo l’opportunità di tornare fisicamente delle classi, questa “sperimentazione coatta” sia occasione e motivo di riflessione per ripensare un’estetica della didattica diversa da quella che abbiamo vissuto.

Che tecniche di sopravvivenza pratica suggeriresti ai nostri ascoltatori?

Dipende tutto dalle vite che ciascuno conduceva prima. Io, ad esempio, mi sto riappropriando di casa mia. Stando sempre in giro, ora sto scoprendo casa mia e mi ci sto affezionando. È una riappropriazione dello spazio e, attraverso lo spazio, dei tempi della giornata. Non è facile perché l’indole mi porterebbe ad andare fuori. Se ho vissuto così fino ad ora è perché, giusto o sbagliato che fosse, era il mio stile di vita.
Però devo dire che accolgo l’inatteso come un’opportunità di riscoperta di me e di me stesso attraverso lo spazio che sono costretto a vivere. Dentro questo spazio ci sono un sacco, ma anche i miei amici. In questa situazione anche l’opportunità di organizzare dei collegamenti digitali ci dà la possibilità di scoprire quanto è importante incontrarsi fisicamente. È un altro modo di capire quanto siamo animali sociali. Non so se è una strategia di sopravvivenza, ma credo che questo inatteso possa essere un’occasione di riflessione e di ripensamento su quello che fino a qualche giorno fa davamo troppo per scontato.

RIASCOLTA L’INTERVISTA A STEFANO MORIGGI NEL PODCAST CHE TROVATE IN APERTURA.

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    Gran Bretagna e Germania, i grandi malati d'Europa. Il primo ministro britannico Starmer e il cancelliere tedesco Merz sono entrambi proiettati in una rincorsa della destra estrema. Il laburista britannico Starmer, due settimane fa: «restauriamo ordine e controllo», titolo di un documento presentato alla Camera dei Comuni. Il democristiano tedesco Merz: ci vogliono «controlli ai confini e respingimenti» perchè «l’immigrazione ha un impatto sul paesaggio urbano». Proprio così. Germania e Gran Bretagna, due potenze economiche mondiali: la Germania (80 milioni di abitanti) con il terzo pil del mondo (dopo Stati Uniti e Cina); il Regno Unito (con 60 milioni di abitanti) con il sesto pil mondiale (dopo la Germania c’è il Giappone e l’India e poi il Regno Unito). La “malattia” (la rincorsa ad essere a volte più a destra delle destre) rischia di cambiare i connotati a tradizioni politiche europee centenarie: come il laburismo britannico, il popolarismo democristiano tedesco insieme alla socialdemocrazia, sempre in Germania. Pesa, inoltre, un discorso pubblico sempre più contaminato da un lessico guerresco. Che danni può provocare questa “malattia” in due paesi fondamentali del continente europeo? Pubblica ha ospitato la storica Marzia Maccaferri (Queen Mary, University of London) e il giornalista Michael Braun (corrispondente da Roma del berlinese Tageszeitung).

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    Lista stupri. Una delle ragazze minacciate: “L’educazione sessuo-affettiva serve ad arginare le violenze”

    L’educazione sessuale a scuola si farà solo con il consenso dei genitori degli studenti minorenni, sia alle medie sia alle superiori. Alla Camera ieri è arrivato il via libera agli emendamenti al ddl Valditara tra le proteste delle opposizioni. È stato respinto anche un emendamento che prevedeva di togliere il consenso dei genitori in caso il corso fosse organizzato dalle Asl, quindi non da associazioni ma dal servizio sanitario nazionale. Intanto, prosegue l’indagine della procura di Roma "lista degli stupri” comparsa nei giorni scorsi nei bagni del liceo romano Giulio Cesare. Al momento il reato ipotizzato è istigazione a delinquere finalizzata alla violenza sessuale. Andrea, una delle studentesse del Giulio Cesare il cui nome era presente nella lista, al microfono di Mattia Guastafierro, ci racconta qual è il clima a scuola: “Ci sono stati dei precedenti, sicuramente non così gravi: stati bruciati dei cartelloni contro la violenza sulle donne nel bagno dei maschi, sono state strappate delle petizioni messe in bacheca per sensibilizzare alla violenza di genere. Purtroppo ci sono persone che hanno avuto un'educazione familiare estremamente poco consapevole di certe cose e purtroppo questa è la prova che un argomento così terribile come lo stupro possa essere utilizzato con leggerezza e, anzi, scritto su un muro di un bagno”. Inoltre, Andrea riconosce l'importanza dell'educazione sesso-affettiva nelle scuole: "Noi passiamo tantissime ore all'interno delle mura scolastiche e quindi deve essere la scuola a insegnare ed arrivare dove la famiglia magari non riesce. C'è molta disinformazione su quello di cui si tratta nell’educazione sessuo-affettiva: serve per insegnare il consenso, per conoscere se stessi senza paure, senza timori e stigmi sociali, per accettare ogni parte di sé. Facendo questo percorso dentro la scuola inevitabilmente la violenza di genere, e le violenze in generale, vengono arginate proprio perché la violenza parte da un'insicurezza. Se noi insegniamo che va bene averle, che queste si possono gestire, come gestire le relazioni, i conflitti ed educare al consenso, io credo che queste cose non succederebbero più. La scuola se ne deve far carico".

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