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Tempesta di uragani, l’ecologia integrale di Francesco

In queste settimane un tumulto di uragani si abbatte sul golfo dei caraibi e sul sud degli USA.

Houston, una delle città più grandi degli Stati Uniti, finisce sott’acqua investita da Harvey che ha dilagato poi per mezzo Texas. In un rapido elenco dei danni stimati in termini capitalistici: + 10.27% il prezzo della benzina; raffinerie chiuse per 4.1 milioni di barili al giorno (23% del totale degli SU); pozzi di petrolio chiusi con una perdita di 1,4 milioni di barili al giorno, il 15% del totale. Secondo Goldman Sachs l’area colpita vale circa il 10% dell’economia USA, con una perdita del PIL dello 0,2%.

Mancano invece le stime dei traumi individuali e delle distruzioni ad personam, i dolori, le sofferenze, la povertà, le malattie dei singoli cittadini. A stimare questi danni per New Orleans ci sono voluti un gruppo di studiosi venuti dalla Francia (si veda per esempio anne m.lovell, stefania pandolfo, veena das, sandra laugier -“face aux dèsastres”- ITHAQUE,2013). D’altra parte è ovvio, i capitalisti misurano in termini di produzione di merci e di profitto, che altro se no.

Quindi è arrivata Irma apocalittica, per i paesi poveri e le isole caraibiche una tabula rasa, per la Florida sette milioni di sfollati, e via con la lista delle rovine. I morti, i feriti, i senza tetto, gli ammalati, gli affamati, i traumatizzati.

Ma i disastri climatici sono globali, come tutto oggi, e quindi se guardiamo dalle parti del continente indiano scopriamo che i monsoni mai così violenti hanno prodotto oltre 1200 morti, milioni di sfollati, e tutto il resto che possiamo immaginare – datosi che stiamo nell’ex terzo mondo le notizie sono meno precise per quanto attiene il capitale. E perché non andare anche in Africa dove il Niger è battuto da piogge torrenziali per un verso e per l’altro afflitto dalla desertificazione, anche qui con la ormai consueta folla dei morti, feriti e distruzioni di case, campi, famiglie, villaggi, aggregati sociali i più vari, attività economiche e non.

In formato minore l’Italia sta sull’orlo della siccità, e quando piove in modo torrentizio avvengono piccole catastrofi come l’allagamento di Livorno, mentre il territorio si costella di frane e smottamenti. Questa sequenza, destinata a reiterarsi e aggravarsi, testimonia che siamo in un tempo di turbolenze climatiche, che in due passi semplici possiamo chiamare cambiamento climatico e quindi riscaldamento globale, che significa un aumento enorme delle energie, dell’aria e delle acque – essenzialmente gli oceani

I modelli predittivi possono discostarsi l’uno dall’altro rispetto alla velocità con cui il fenomeno si dispiega, e anche sui limiti di soglia tra criticità e eventuale catastofe, ma comunque si tratta di un fenomeno le cui evidenze scientifiche sono ormai moltissime, credo il fenomeno con più evidenze scientifiche teoriche e osservative di questo inizio secolo. Qualcosa come l’evidenza della caduta dei gravi, i sassi o i pianeti.

Ma sarà un cambiamento dovuto all’azione umana? Qui il ragionamento è ancora una volta semplice: anche chiamando in causa le tempeste solari o quant’altro, la geotermia ad esempio per quanto attiene lo scioglimento dei ghiacci polari, c’è certamente una componente antropica nell’aumento della CO2 in atmosfera, insomma un consistente contributo umano all’effetto serra cosidetto. E siccome sul sole non possiamo in tempi ragionevoli operare – neppure lo scienziato più pazzo, ammalato di delirio di onnipotenza può pensarlo, il sole è troppo lontano e troppo robusto – e la geotermia della terra è altrettanto fuori portata, l’azione di contrasto più efficace attiene le attività umane riducendo le nostre emissioni di anidride carbonica.

Qui entra in gioco la politica, o dovrebbe. Una politica declinata non come scienza della presa e/o conservazione del potere, ma come polis più ethica, ethica da ethos che in greco antico significa abitare, abitabile. La politica come teoria e prassi che renda abitabile il mondo. La scienza e questa politica tenendosi per mano, e direi costruendosi in mutua simbiosi, potrebbero forse far fronte in tempi utili al cambiamento climatico, che meglio ormai sarebbe chiamare cataclisma climatico. Epperò invece queste due facce della medaglia rimangono separate, e anche laddove non si arrivi all’estrema imbecillaggine criminale di Donald Trump che nega il climate change e denuncia gli accordi di Parigi, già di per sè piuttosto striminziti, la politica odierna stenta a cogliere l’importanza decisiva per la civiltà umana del cambiamento climatico, col suo seguito di carestie, guerre, enormi migrazioni, caos e violenze generalizzate fino al genocidio che qualcuno ipotizza come soglia finale.

In questo quadro un documento significativo, forse il più significativo comparso nello spazio pubblico del dibattito, è l’enciclica “Laudato Sì del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune”(2015).

Sapendo in quale materia novissima ardente e scabra dovrà mettere le mani, per l’intanto Francesco si assicura le spalle, citando i suoi predecessori a cominciare, direi inevitabilmente, dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII, mentre precisa di volere “entrare in dialogo con tutti riguardo la nostra casa comune”. L’intera umanità viene chiamata in causa e a raccolta, con un occhio particolare ai credenti, e tra questi ai cristiani e ai cattolici, ma senza esclusione di alcuno. A seguire vengono Paolo VI, Giovanni Paolo II, e Benedetto XVI che, in un sapiente montaggio, appaiono tutti preoccupati se non indignati per le ferite inferte dagli esseri umani alla terra, la casa comune. Sappiamo che non è così, ma l’arte retorica in cui i gesuiti sono maestri, permette a Francesco di cominciare la lunga cavalcata che lo porterà pagina dopo pagina a esplorare le praterie di quella che egli battezza “ecologia integrale”, senza apparenti rotture con la tradizione cattolica apostolica romana, anzi facendosene forte.

A questo punto Francesco enuncia tre nuclei di pensiero che riprenderà, modulerà e svilupperà lungo l’intero testo. Il primo: sono inseparabili la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore. Il secondo: l’ecologia integrale richiede l’apertura verso categorie che trascendono il linguaggio delle scienze esatte o della biologia e ci collegano con l’essenza dell’umano. Il terzo: se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati. Infine egli disegna le nervature del suo pensiero ecologico e i temi che nelle pagine dell’enciclica verranno svolti: l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che nel mondo tutto è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma – si riferisce al paradigma tecnocratico e dello sfruttamento ndr – e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita.

E “i talenti e il coinvolgimento di tutti sono necessari per riparare il danno causato dagli umani sulla creazione di Dio” come dicono i vescovi del Sudafrica. Per tramite dei vescovi sudafricani, altra raffinatezza retorica, il Papa ci significa che il problema è di tutta l’umanità, universale, e poi via via in corso d’opera specificando: di tutti i credenti, qualunque religione pratichino, dell’insieme dei cristiani, fino dulcis in fundo ai cattolici, nell’idea di Bergoglio veri e propri militanti e ferro di lancia di questa decisiva lotta contro il ricaldamento globale, e la povertà connessa. Con Dio sullo sfondo, creatore del mondo, limite metafisico e concreto al delirio umano di onnipotenza. E avere Dio dalla propria parte non è proprio una bazzecola, almeno per i credenti; la fede come si sa essendo un’arma.

Non è qui evidentemente il luogo per una esegesi analitica del pensiero di Francesco. Però alcuni tratti fortemente significanti possono essere di “pubblica rilevanza e utilità”. Il primo è la questione della presa di coscienza dello stato di degrado, e dell’urgenza di fare qualcosa per contrastare: prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare. Non è indolore insomma misurarsi col problema, e anzi solo attraverso la sofferenza personale ciascuno può capire che fare. E’ un pensiero pesante questo, innervato nella tradizione sacrificale cattolica, un pensiero che fa palesemente a pugni con l’edonismo che permea la nostra società, i suoi meccanismi di consumo e di occupazione del tempo libero, cosidetto. La lotta per un’ecologia integrale non sarà una festa con pranzo di gala, ma dovrà farsi con mutazioni dei modi di vita e consumo che imporranno sacrifici, fatica e dolore.

In qualche modo qui Francesco cerca la strada per mobilitare le coscienze, a tutt’oggi piuttosto tiepide, riconoscendone la difficoltà, che mica è facile osare trasformare in sofferenza personale ecc.. D’altra parte l’interrogazione è ineludibile: perchè l’umanità non insorge – per ora – contro il riscaldamento climatico globale e contro il degrado ambientale? Da un altro punto di vista è quel che si chiede Amitav Ghosh nel suo ultimo libro La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile. Un testo notevole che ci accontentiamo di citare, riprendendo il filo dell’enciclica papale. Nel contempo il clima è un bene comune di tutti e per tutti, cui tutti quindi debbono essere interessati e parte attiva, specialmente i poveri, così come l’acqua potabile e pulita è un diritto essenziale, fondamentale e universale, indispensabile alla vita umana, quindi la disponibilità e la fruizione dell’acqua non può essere sottoposta alle leggi del profitto privato.

Quello del modo di produzione e consumo attuale – basato sul profitto – che implica insieme esaurimento delle risorse naturali e crescita della povertà nonchè moltiplicazione delle migrazioni, è il problema fondamentale che attraversa più o meno ogni pagina. Quando si propone una visione della natura unicamente come oggetto di profitto e di interesse (..) ciò comporta anche gravi conseguenze per la società (..) immense disuguaglianze, ingiustizie e violenze per la maggior parte dell’umanità (..). Col rischio estremo di annichilire l’umanità intera, devastando il pianeta, perchè l’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme. L’elenco dei danni è lungo, accurato e, direi, esaustivo, danni sociali e danni ambientali – dalla deforestazione al narcotraffico, dalla esclusione sociale alla perdita di biodiversità, dalla violenza fino alla guerra, all’aumento della temperatura degli oceani, dallo sviluppo ipertrofico delle tecnologie digitali di comunicazione che limitano la sapienza critica alla crescita di città invivibili ecc….- ciascuno connesso con gli altri, così come viceversa tutte le creature del creato sono connesse, e questa connessione riconosciuta – tutti noi esseri creati abbiamo bisogno gli uni degli altri – e praticata può diventare una forza positiva. Ribadendo che: un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale (..) per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri.

Ma le politiche internazionali sono del tutto insufficienti e l’egemonia del paradigma tecno–economico rischia di distruggere non solo la politica ma anche la libertà e la giustizia. Il paradigma tecno–economico, altrimenti detto tecnocratico, e l’azione, il potere, della speculazione finanziaria a livello mondiale. Bisogna fare in fretta a trovare efficaci rimedi, a costruire una potente ecologia integrale, perché la velocità del cambiamento e del degrado sembra indicare l’avvicinarsi rapido di un punto di rottura, forse di non ritorno. Non è catastrofica l’enciclica, soltanto si vuole realista rispetto a un certo intorpidimento e a una spensierata irresponsabilità. In questo quadro il Papa non solo indica l’aumento degli investimenti in ricerca come necessario ma sembra tratteggiare una vera e propria alleanza tra la Chiesa e gli scienziati fondata sul rispetto della libertà di ricerca. E’ uno dei punti di maggior interesse e, mi pare, novità. Citiamo. Su molte questioni concrete la Chiesa non ha motivo di proporre una parola definitiva e capisce che deve ascoltare e promuovere il dibattito onesto fra gli scienziati, rispettando le diversità d’opinione. E par di sentire Galileo applaudire imprecando: ma non potevate accorgervene prima?

Ovviamente l’enciclica affronta anche il problema dal punto di vista squisitamente religioso nel capitolo “Il Vangelo della Creazione”, perchè nessun ramo delle scienze e nessuna forma di saggezza può essere trascurata, nemmeno quella religiosa con il suo linguaggio proprio. Un capitolo dove non mi addentro, non essendo credente, seppure la lettura sia bella e coinvolgente, a volte come certe pagine di Agostino. Soltanto due citazioni che fanno i conti con il delirio di onnipotenza e di dominio che caratterizza l’attuale degrado dispotico della natura. La prima. Così ci rendiamo conto che la Bibbia non dà adito ad un antropocentrismo dispotico che non si interessi delle altre creature. La seconda. Il modo migliore per collocare l’essere umano al suo posto e mettere fine alla sua pretesa di essere un dominatore assoluto della terra, è ritornare a proporre la figura di un Padre creatore e unico padrone del mondo, perchè altrimenti l’essere umano tenderà sempre a voler imporre alla realtà le proprie leggi e i propri interessi. Tra l’altro per il pensiero cristiano la proprietà privata non è mai stata un diritto riconosciuto come intoccabile o assoluto, ci ricorda Bergoglio. Analizzando in esteso il paradigma tecnocratico dominante oltre a criticare il tremendo potere distruttivo e di controllo che esprime per cui bisogna liberarsene, l’enciclica coglie le potenzialità positive laddove individua nella potenza della tecnoscienza la qualità che potrebbe permettere un salto quasi “evolutivo” dal regno della necessità, e della produzione economica, a quello della bellezza e della libertà – che ricorda da vicino alcune affermazioni di Marx. Possiamo qui proporre una visione attinente l’evoluzione, e il drammatico problema evolutivo che sta oggi di fronte all’umanità, visione che la Laudato Sì non coglie, il che non sorprende – il pensiero cattolico stentando ad accogliere l’evoluzione darwiniana nel suo seno.

Quando ci si riferisce al dominio/potere dell’uomo sulla natura, oggi diventato strapotere che rischia di mandare a scatafascio l’intero mondo, soltanto come portato di una volontà e/o delirio di onnipotenza e quindi alla fin fine come un problema morale (si veda il paragrafo “Crisi e conseguenze dell’antropocentrismo moderno”), in realtà non si tiene conto del processo evolutivo. La specie homo è, sul piano del corredo genetico, piuttosto in basso nella scala dei viventi. Per esempio noi abbiamo circa trentamila, o poco più, geni mentre il giglio, lilium, arriva oltre i settantamila. Ovvero la nostra capacità genetica di adattarci all’ambiente naturale è piuttosto scarsa; insomma così stando le cose, siamo una specie destinata a non sopravvivere. Ma a un certo punto è insorta in un lasso di tempo piuttosto breve, l’intelligenza col cervello e la mente, insieme alla capacità di cooperazione. Così l’homo decise di adattare l’ambiente a se stesso, costruendo un habitat che gli permettesse di vivere e prosperare. In altri termini, di darsi gli strumenti per dominare la natura selvaggia, piegandola ai sui bisogni e desideri, di cui le città sono il monumento, la testimonianza vivente.

Questa strategia evolutiva soggiacente l’intero sviluppo umano, in ogni civiltà e/o ideologia – il comunismo non è in questo senso diverso dal capitalismo eccetera – è oggi arrivata alla fine della strada; il cambiamento climatico ne segna l’inequivocabile termine. Dal dominio dell’uomo bisogna passare a un contratto di equità tra uomo e natura, ma dirlo è facile, farlo per ora nessuno sa come

Ritornando alle pagine papali, e avviandoci alla conclusione in modo certamente troppo rapido, Bergoglio si dedica alla definizione delle azioni possibili, descrivendole con cura e precisione anche nei particolari che possono essere nelle corde e possibilità del singolo, o di comunità specifiche. Dal lavoro all’innovazione biologica, dalla giustizia tra le generazioni al dialogo e trasparenza dei processi decisionali, dalla politica all’ethica (“politica ed economia in dialogo per la pienezza umana”), dalla pace all’amore civile e politico, dalla conversione ecologica all’educazione per l’alleanza tra l’umanità e l’ambiente, e altro ancora. Laddove il documento pare a me, lettore laico e impregnato di cultura marxiana, carente è nella definizione dei conflitti che una ecologia integrale dovrà affrontare. Non basta avere ragione, e presentare argomenti convincenti, non basta educare e raccogliere un catalogo di buone pratiche; forze potenti e del tutto spregiudicate, vanno in direzione opposta, forze con cui inevitabilmente si arriverà a scontrarsi: i mercanti di armi, droghe, petrolio e derivati, i mercanti di uomini, donne e denaro, i mercanti di fede per l’aggressione – vedi tra tutti Daesh – e quelli del nucleare, nonché parti dei popoli che si volgono a ideologie razziste, fasciste, fino al nazismo, da cui il voto di massa che ha eletto Trump.

Col che e da ultimo la Laudato Sì, se diventa una autentica bandiera dei fedeli cattolici e cristiani, può essere una forza in grado di smuovere una parte non indifferente dell’umanità. E comunque rappresenta un tentativo encomiabile, lucido, aperto e utile, finanche geniale, per fondare una nuova dimensione del pensare e dell’agire umano, nonché una nuova scienza coniugata con la politica e l’ethica: l’ecologia integrale.

  • Autore articolo
    Bruno Giorgini
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