Quando il deputato Bruno Araujo del Pernambuco aveva pronunciato il 142° fatidico sì alla richiesta di impeachment della presidente Dilma Rousseff, nell’Aula della Camera di Brasilia e in alcune piazze era scoppiato il carnevale carioca, mentre altri piangevano. Le piazze pro e contro il governo dei Partito dei Lavoratori avevano riprodotto fedelmente la spaccatura della società brasiliana tra i ceti medi e medio alti e la massa di poveri e poverissimi che in Brasile continuano a essere maggioranza. Era il 16 aprile del 2016 e si apriva una frattura istituzionale e politica inedita nella storia del gigante sudamericano.
Una frattura che si era consumata lentamente prima con l’abbandono del Partito dei Lavoratori da parte dei ceti che erano cresciuti economicamente e diventati critici dei servizi da terzo mondo, della burocrazia asfissiante, della crisi economica che aveva eroso i redditi. I poveri e i poverissimi restavano invece fedeli a Dilma e al PT, perché grazie a loro hanno avuto più diritti, più assistenza, più protagonismo. Ma in realtà tutto questo c’entra poco o nulla con l’impeachment di Dilma Rousseff che ha aperto le porte alla crisi istituzionale e aggravato quella economica. Il variegato fronte di oppositori storici delle destre insieme agli ex alleati del PT aveva votato per mandare a casa un governo democraticamente eletto attraverso lo strumento dell’impeachment per la seconda volta dal ritorno alla democrazia negli anni ’80.
Un sistema istituzionale, quello brasiliano, che prevede un presidente senza maggioranza propria alle Camere, e quindi obbligato a distribuire cariche e prebende a partiti e partitini per riuscire a governare. Un’arma a doppio taglio però, perché basta che si inceppi il meccanismo ben oliato della vendita di favori perché un presidente possa essere licenziato. È questo il vulnus alla democrazia che il partito dei Lavoratori va denunciando da mesi, ma va presso atto che negli ultimi 14 anni di governo, prima con Lula e poi con la Rousseff, nessuna ipotesi di riforma è stata avanzata per garantire una governabilità non ricattabile.
Con l’impeachment si è spezzato il consociativismo tra sinistra e centristi che seppe costruire Lula ai primi anni 2000 per garantire la stabilità dei suoi governi. Un equilibrio che già al momento dell’elezione di Dilma Rousseff cominciava a scricchiolare per rompersi definitivamente dopo appena due anni. Dilma, una “tecnica” diventata successore del presidente più popolare di tutti i tempi, non ha mai considerato seriamente il necessario e continuo lavorio di mediazione tra partiti e partitini per tenere in vita un governo, lavoro nel quale l’ex sindacalista Lula da Silva era abilissimo.
Il governo che si è insediato dopo la cacciata della Rousseff è stato un ritorno al passato, con ministri maschi, ricchi e bianchi come nelle peggiori tradizioni. Ma soprattutto, il governo presieduto da Michel Temer raggruppa il pezzo più corrotto della politica brasiliana annidato nel suo partito, il PMDB. Un partito molto complesso nato al centro dello spettro politico e che ebbe il suo momento di gloria con il ritorno alla democrazia in Brasile eleggendo i primi due presidenti dopo i militari. Dopo avere sofferto scissioni di diverso tipo, è diventato il partito grimaldello per ottenere la maggioranza parlamentare che nessun presidente brasiliano riesce a conquistare da solo. Faranno parte del Governo di Enrique Cardoso, di centrodestra, e dei governi di Lula e Rousseff di centrosinistra. Non importa con chi, il PMDB fornisce i numeri in Parlamento dietro lauto compenso ovviamente. Compenso proveniente dalla rete capillare di corruzione nella gestione delle aziende pubbliche e dalle tangenti pagate dagli imprenditori per agevolare i loro interessi. In questo momento il PMDB è stato decapitato dall’inchiesta Lava Jato che ha portato in galera il presidente della Camera Eduardo Cunha e soprattutto ha colpito il presidente in carica Michel Temer, accusato di avere comprato il silenzio di Cunha attraverso un giro di tangenti.
Temer, classe 1940, tre volte presidente della Camera, massone, Presidente del PMDB e inquisito nelle tre principali inchieste per corruzione pubblica, dalla costruzione degli stadi per i mondiali fino appunto a Lava Jato, la madre di tutte le inchieste per corruzione con le tangenti pagate dai principali imprenditori a politici di quasi tutti i partiti. Temer ha tentato nel fine settimana di neutralizzare la richiesta di impeachment presentata dall’Ordine degli Avvocati, ma la cena alla Residenza Presidenziale con amici politici e sostenitori dei poteri forti è andata deserta. L’uomo dello establishment utilizzato come una clava contro il governo del PT di Lula è stato già mollato. Il suo futuro è incerto.
A questo punto la situazione si fa veramente complicata perché la Costituzione prevede che se dovesse saltare il presidente provvisorio in carica sia il Parlamento a designarne uno nuovo fino a fine mandato (2018), eleggendo tra i parlamentari o addirittura tra i cittadini. Se un Parlamento pieno zeppo di inquisiti si arrogherà la facoltà di eleggersi un presidente da solo, la reazione delle piazze sarà scontata e non pacifica. Lo scenario più probabile quindi è un ricorso a elezioni anticipate. Elezioni sulle quali stanno già girando i primi sondaggi che, al momento, vedono in testa quello che è stato il presidente più amato dai brasiliani, Ignacio da Silva, detto Lula. Un pasticcio brasiliano che dovrebbe avere una sola via di uscita, la riscrittura integrale delle regole istituzionali e di trasparenza rispetto al denaro pubblico. Il punto è che questa riforma dovrebbe farla una classe politica totalmente screditata e integrata nel “sistema” corruttivo.