Approfondimenti

Jazz per pogare in arrivo a Novara

In un panorama di festival del jazz in cui non poche rassegne storiche o meno storiche sono costrette a ridimensionare in termini quantitativi e/o qualitativi le proprie ambizioni, a volte drasticamente (quando non rischiano addirittura di chiudere i battenti), consola una presenza come quella di Novara Jazz: che senza grandissimi mezzi e non senza momenti di forte difficoltà anno dopo anno però nel quadro instabile delle manifestazioni di jazz ha acquisito l’aura di una rara certezza e mantiene una sua fresca vivacità.

Lo scorso anno Novara Jazz ha anche avuto la soddisfazione di ottenere in “prima istanza” (cioè la prima volta che ne ha fatto richiesta, per la stagione 2015-16) un contributo dal Fus (Fondo unico per lo spettacolo), nell’ambito del finanziamento all’”Attività concertistica e corale”: un riconoscimento della qualità della sua programmazione e del suo rapporto con il territorio. Un accorto, oculato uso delle risorse, senza grilli per la testa, è uno dei segreti di Novara Jazz, e un altro è una effettiva indipendenza di scelte, che ne fa – tanto la nutrita programmazione “invernale” di concerti, quanto il festival in primavera – uno dei soggetti più non conformisti nel tessuto del jazz in Italia.

Una intelligente specialità di Novara Jazz nella sua veste festivaliera sono diventate in questi ultimi anni delle produzioni originali frutto di residenze, di cui si ricordano protagonisti per esempio l’Italian Instabile Orchestra e una compagine mista, costituita da musicisti italiani e non, diretta da Wayne Horvitz. Quest’anno la scelta è caduta sul cornettista statunitense Rob Mazurek, alla guida di una formazione per il resto totalmente italiana. Dopo alcuni giorni di prove a Tornaco, in una zona di risaie della provincia novarese, venerdì 27 maggio il gruppo si è esibito nel cortile del Museo Etnografico della suggestiva località, in quello che è stato il clou del primo dei tre week end lunghi (giovedì-domenica) della tredicesima edizione del festival (del risultato di questa residenza la sera prima aveva già beneficiato anche un’altra rassegna, la bolognese Angelica).

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Mazurek ha indicato il formato con cui intendeva lavorare, un ottetto, e l’organico strumentale, e la produzione, curata da Enrico Bettinello, gli ha sottoposto registrazioni di alcuni dei più brillanti fra i jazzisti italiani delle ultime generazioni; prima di arrivare per la residenza novarese Mazurek ha composto per l’occasione una partitura, Land of Spirals, su cui ha poi lavorato con Francesco Chiapperini, sax alto, clarinetto basso, Alberto Collodei, clarinetti, Simone Massaron, chitarra elettrica, Pasquale Mirra, vibrafono, Tony Cattano, trombone, Luca Pissavini, contrabbasso, e Bernardo Guerra, batteria. Figura tra le più robuste della scena del jazz di oggi, nella sua variegata attività Mazurek ha accumulato anche una qualificata esperienza con organici ampi (si ascolti il recente Galactic Parables: Volume 1 della sua Exploding Star Orchestra, Cuneiform Records, per metà registrato dal vivo al festival sardo di Sant’Anna Arresi nel 2013), e mostra una notevole capacità di declinare un linguaggio avanzato e soluzioni originali con una forte comunicativa: qui la composizione si snoda con una molteplicità di motivi che via via emergono, a volte reiterati e variati come momenti di raccordo, che danno sostanza al fluire della musica e al contempo creano un senso di attesa, e nel succedersi di una varietà di situazioni, in cui la spontaneità e le virtù solistiche dei musicisti sono valorizzate ma anche sempre “gestite” dalla partitura, e indirizzate verso episodi successivi, in un flusso di grande vivacità, vitalismo, a volte con qualcosa di estatico: e il luminoso tema di apertura evoca Don Cherry in una maniera molto tipicamente mazurekiana. C’è da sperare che questa collaborazione fra Mazurek e i giovani musicisti italiani trovi delle opportunità per non fermarsi qui, e anche uno sbocco discografico.

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Questa volta in maniera esplicita e organica, Don Cherry è stato di nuovo evocato sabato 4 giugno nella bella cornice della corte del Broletto, al centro di Novara, dal gruppo Multikulti a cui Cristiano Calcagnile ha dato vita proprio per rendere omaggio al grande trombettista, e con cui ha inciso Multikulti Cherry On, appena pubblicato da Caligola Records (Calcagnile lo presenterà a Radio Popolare lunedì 13 giugno nell’ambito di Jazz Anthology, h. 22.45).

Multikulti, che ha fatto una eccellente impressione al recente Torino Jazz Festival, a Novara è stato penalizzato dalla pioggia a ridosso della serata, che ha impedito il soundcheck e costretto il gruppo – oltre a tutto piuttosto ampio, otto elementi – a esibirsi in condizioni di ascolto sul palco e di messa a punto del suono tutt’altro che ottimali. Ma si è sentito senz’altro abbastanza da capire che il progetto è interessante e merita decisamente di avere una ampia circolazione concertistica. Cherry è stato un gigante ma continua in definitiva a non essere considerato quanto dovrebbe, o ad essere anzi decisamente sottovalutato, in particolare per la traiettoria che lo porta, a partire già dagli anni sessanta, a cercare nuovi orizzonti, a esplorare nuove dimensioni esistenziali e culturali – in sintonia con la controcultura giovanile dell’epoca – e ad uscire dall’ortodossia del jazz. Il progetto di Calcagnile mostra quanto ci sia utilmente da scavare e da rimeditare nell’arte di Cherry: l’elemento ornettiano e quello ayleriano di cui la sua musica si è nutrita, e d’altro canto tutto quel che di inconfondibilmente suo vi si trova, e poi il free jazz così come la ricerca di un nuovo candore, e ancora la dimensione della communion (e questo di Multikulti è un lavoro molto collettivo, con una forte immedesimazione di tutti) e l’aspetto estatico (che abbiamo appena nominato a proposito di Mazurek, devoto di Cherry) e appunto la prospettiva multiculturale.

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Ad un’altra grande figura dell’avanguardia afroamericana, Eric Dolphy, era dedicato il 2 giugno il programma del settetto Potsa Lotsa Plus della berlinese Silke Eberhard (la leader al sax alto e al clarinetto basso, e inoltre clarinetto, sax tenore/clarinetto, tromba, trombone, tuba, elettronica/tastiera). E’ stato quasi un bene che a causa del maltempo il concerto sia stato spostato al chiuso dell’Auditorium Brera, perché con i suoi pregevoli arrangiamenti, con i suoi fini impasti di fiati il lavoro della Eberhard sulla Love Suite (a cui Dolphy stava lavorando quando nel ’64 morì improvvisamente) meritava la nitidezza dei suoni, la quiete e l’attenzione degli ascoltatori che al Broletto sarebbe stato difficile avere.

Il giorno dopo la Eberhard si è esibita in trio con due dei suoi musicisti, Jurgen Kupke al clarinetto e Nicolaus Neuser alla tromba, nel bel chiostro quattrocentesco della Canonica del Duomo, che Novara Jazz utilizzava per la prima volta e che ci si augura possa diventare nelle prossime edizioni una location regolare del festival. Come ci si augura che possa diventare una consuetudine anche una esibizione in solo in un altro spazio in cui Novara Jazz è entrata per la prima volta, la Galleria d’arte moderna Giannoni, che si affaccia sulla corte del Broletto (e che – detto per inciso – custodisce una collezione di opere di tutto rispetto): fra i quadri, nella dimensione raccolta di una sala, uno dei più importanti protagonisti dell’improvvisazione europea, il contrabbassista britannico Barry Guy, ha offerto domenica 5 un impeccabile saggio insieme di virtuosismo e di tensione al non convenzionale.

Novara Jazz prosegue ancora per un altro week-end lungo. I due appuntamenti più importanti sono (h. 21.30, al Broletto) con due formazioni molto up-to-date e che raccolgono grandi consensi anche in settori di pubblico non di ascoltatori di jazz, ma interessati piuttosto a punk, rock, eccetera: venerdì dalla Svezia la massiccia (diciassette elementi), potente, di culto, Fire! Orchestra; sabato dalla Gran Bretagna i Melt Yourself Down (“jazz per pogare”, secondo la definizione del Guardian).

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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