Due pagine fitte di intervista per dire nulla di nuovo.
Renzi rilancia se stesso, però non dice come. L’ex Premier può sperare di rimanere segretario del Partito Democratico, considerata la debolezza dei suoi avversari interni e le loro divisioni. Ma per vincere le elezioni politiche contro il Movimento 5 Stelle gli servono idee e progetti realizzabili.
Nemmeno questa volta si sono visti.
Quello che si vede, invece, è la nuova narrazione inaugurata la notte del 4 dicembre quando a Palazzo Chigi Renzi si dimise prendendo atto del risultato del referendum, e illustrata poi all’assemblea nazionale del Pd il 18 dicembre: assunzione di responsabilità per la sconfitta, voglia di mollare tutto, ritorno sulla scena dopo aver capito cosa cambiare.
Il “cosa cambiare” rischia di ridursi a una riverniciatura: iniziative sul territorio, volti nuovi in segreteria e in televisione, un atteggiamento più dialogante e meno arrogante.
Renzi afferma di essere un leader di sinistra ma la sua idea di sinistra resta saldamente ancorata alla Leopolda: innovazione contro conservazione, nuovo contro vecchio, una politica svincolata dai punti saldi della sinistra tradizionale in materia economica a cominciare dal rapporto col sindacato.
Rimangono inalterate, di conseguenza, la linea politica, con la difesa di tutte le leggi approvate, e i rapporti nel Pd (“non mi sembra aria di una scissione a sinistra, come dire “non ne hanno la forza”).
Per le idee ci sarà tempo.
Una prospettiva, invece, emerge con più chiarezza. Il voto si allontana. E l’ipotesi di larghe intese con Forza Italia si fa strada. Berlusconi ne parla senza nascondersi. Renzi premette che non servono e insiste su una legge elettorale maggioritaria. Con una precisazione che pesa molto: “se dalla Corte verrà fuori un sistema elettorale diverso ci confronteremo con gli altri”.
Che è come dire che il Nazareno non è morto.