In principio erano gli esuberi. Una classica storia di sfruttamento del lavoro nel settore della logistica: allo stabilimento della Coca Cola di Nogara (VR) le cooperative di facchinaggio entrano ed escono dal giro dei subappalti, e 14 lavoratori – tutti immigrati – ci sono rimasti in mezzo. Contratti che spariscono, per ricomparire forse sotto forma di interinali o stagionali. Ma per ora, a casa. Dodici di loro sono iscritti ai Cobas, e decidono di dare vita a una protesta: cortei, appelli ad amministratori locali, parroci, giornali e forze politiche. Niente. Quindi hanno alzato il tiro. Dagli ultimi giorni di marzo occupano il piazzale della fabbrica, con tutte le famiglie al completo. I bambini giocano a pallone, le mamme portano il pranzo ai mariti, gli uomini urlano nei megafoni. Sei lavoratori si sono staccati dal gruppo e, forzando il cordone di sicurezza delle guardie private, sono saliti sul tetto. Dormono lì, fanno lo sciopero della fame, non hanno intenzione di scendere.
Nel piazzale dello stabilimento sono arrivati i poliziotti antisommossa, ma non se la sono sentita di sgomberare intere famiglie. Le guardie della sicurezza privata della Coca Cola invece non sono andate per il sottile, e secondo quanto raccontano gli operai hanno cercato di disperdere il presidio a colpi di Taser, le pistole elettriche, quelle che danno la scossa.
E intanto altri posti di lavoro sono a rischio. Ai 14 licenziati originari se ne sono aggiunti già altri 29, accusati di non essersi recati sul posto di lavoro nell’orario indicato (ovviamente a causa della protesta). E la stessa Coca Cola, con una clamorosa rappresaglia, annuncia il ricorso a un ciclo di cassa integrazione straordinaria per i 450 dipendenti dello stabilimento, dal momento che con la protesta nel piazzale e sui tetti sarà “costretta” a interrompere la produzione. Un tentativo di mettere i lavoratori gli uni contro gli altri, dicendo ai facchini: è colpa vostra se qui si ferma tutto.
La Coca Cola è in piena salute, ma ora per mettere paura a chi sta scioperando evoca perfino la delocalizzazione in qualche paese dell’Est Europa dove i salari son più bassi e nessuno si sogna di protestare. E la paura contagia tutta la cittadina di Nogara, per la quale lo stabilimento della grande multinazionale significa lavoro per 450 famiglie più tutto l’indotto.
Abbiamo intervistato un lavoratore tra quelli licenziati che sono saliti sul tetto e l’avvocato Roberto Malesani, legale di Adl Cobas che a breve incontrerà la controparte per proseguire nella trattativa sindacale.