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Libia, lo scontro sul petrolio

Il premier Sarraj ha fatto marcia indietro. Non pretende più che l’esercito nazionale guidato dal generale Khalifa Haftar si ritiri immediatamente dagli impianti della “Mezzaluna petrolifera”, ma chiede che tutte le parti libiche in conflitto si riuniscano per trovare un accordo. E quando ha letto i comunicati bellicosi delle potenze occidentali, ha esplicitamente respinto ogni intervento straniero nella vicenda.

L’occupazione (oppure liberazione come la chiamano quelli del Parlamento riunito a Tobruk) dei terminali petroliferi dei quattro porti di Ras Lanouf, Sidra, Brega e Zuweitina, ha cambiato le carte in tavola e messo il governo incaricato guidato da Sarraj in gravi difficoltà economiche.

La mossa fulminea che ha cacciato le milizie locali di Ibrahim Jadran denominate “Guardie delle infrastrutture petrolifere” ha privato il Consiglio di presidenza di Sarraj dalla fonte principale di entrate economiche, proprio nel momento nel quale le milizie di Misurata inquadrate nell’esercito libico erano impegnate nella lotta contro gli ultimi covi di resistenza dei daeshisti a Sirte.

Il discusso capo milizie, Ibrahim Jadran, che durante i precedenti governi del dopo caduta della dittatura, aveva fatto il bello e cattivo tempo sul controllo delle esportazioni petrolifere, dopo una chiusura forzata delle esportazioni dal 2014, a causa degli attacchi dei jihadisti del sedicente califfato, la scorsa primavera ha rotto la sua affiliazione al governo di Al Thinni e ha dichiarato fedeltà al Consiglio di presidenza di Sarraj.

L’accordo ha svelato uno scandalo che ha scosso l’opinione pubblica libica: in cambio del passaggio politico, Jadran ha ottenuto il riconoscimento di un’ingente indennità alle sue Guardie. Una cospicua tangente, insomma, che non ha scandalizzato né l’inviato dell’Onu, Kobler, né le potenze occidentali che hanno puntato su Sarraj, per la normalizzazione del Paese.

Ho letto alcuni articoli di stampa che descrivono il generale Haftar come golpista gheddafiano a capo di milizie della Cirenaica. Non ho mai letto un concentrato di bugie in una così breve frase. Il generale Haftar ha tanti difetti e ha compiuto diversi errori madornali nella storia recente della Libia post Gheddafi, ma è riconosciuto dal Parlamento legittimo come guida suprema dell’esercito nazionale libico e non guida milizie come vogliono far apparire le potenze occidentali interessate a mettere mano sul petrolio libico. In secondo luogo, il generale Haftar non è stato mai gheddafiano. Anzi, l’ex dittatore lo temeva per le sue doti militari; lo ha lasciato alle sue sorti in Ciad, senza rifornimenti e soccorsi militari per la battaglia persa di El-Dom (1987) e in seguito (1990) lo ha fatto condannare in contumacia a morte “per alto tradimento della Jamahiria”; nel Febbraio 2011, il generale è tornato a Bengasi, dopo vent’anni d’esilio negli Stati Uniti, per partecipare alla rivolta contro il dittatore.

L’azione militare compiuta senza quasi spargimento di sangue per la riconquista delle strutture petrolifere ha ottenuto, inoltre, il plauso del parlamento, unica istituzione legittima in Libia. Non solo, i militari hanno già consegnato la gestione degli impianti nelle mani delle strutture civili dell’Ente Nazionale del Petrolio (Noc, nell’acronimo inglese), che ha annunciato che ha iniziato a preparare la ripresa delle esportazioni dal terminal principale del Paese. “I nostri team tecnici hanno iniziato a valutare che cosa fare per porre fine alla situazione di forza maggiore e riprendere le esportazioni nel più breve tempo possibile”, ha detto il presidente del Noc, Mustafa Sanalla, in una dichiarazione pubblicata sul sito web della società. Tuttavia, il comunicato non spiega come si potrebbe aumentare le esportazioni da questi terminal petroliferi che non sono controllati dal Consiglio di Presidenza e dal governo incaricato.

La vicenda è molto delicata e le potenze occidentali potrebbero compiere passi falsi gravissimi se intervenissero in sostegno di una parte libica contro l’altra. La gravità della situazione è divenuta chiara sia a Sarraj sia ad Aqila, i due uomini politici che si contendono la presidenza e la legittimità del potere in Libia. Proprio martedì sera, il presidente del parlamento, Aqila Saleh, ha impartito disposizioni al capo del governo provvisorio Abdullah al Thinni (al quale risponde il generale Haftar le cui forze hanno espugnato i terminal) di riconsegnare i terminal petroliferi all’Ente Nazionale del Petrolio ed alle nuove guardie delle strutture petrolifere”.

Lo stesso Sarraj nella mattinata di mercoledì ha rafforzato la sua opposizione a un intervento straniero in Libia sulla vicenda petrolifera e ha chiesto un tavolo di trattative tra le parti in conflitto.

Mettendo in guardia dal rischio di una “divisione del Paese”, l’inviato dell’Onu per la Libia, Martin Kobler, ha affermato che la risoluzione 2259 delle Nazioni Unite “proibisce chiaramente le esportazioni di petrolio illegali” dalla Libia e stabilisce che installazioni petrolifere libiche devono essere sotto l’autorità del Consiglio di presidenza. Ma la questione è complicata perché questo Consiglio dovrebbe essere sottoposto al potere del Parlamento e il governo incaricato dovrebbe ancora ottenere il voto di fiducia. Questa complicata impalcatura istituzionale inventata dall’UNSMIL, la missione dell’ONU per la Libia, è servita infatti a dare legittimità alle milizie islamiste che controllavano la capitale Tripoli e che per il momento lavorano sotto traccia, per minare il potere di un vero governo di unità nazionale. Il premier incaricato Sarraj, infatti, è relegato ancora nella base navale di Abu Setta e non risiede nel centro della capitale, perché la sicurezza del governo è nelle mani di queste milizie.

La gravità della crisi politica e militare libica ha spaccato lo stresso Consiglio di presidenza. Due dei vicepresidenti hanno stigmatizzato le prime dichiarazioni di Sarraj che minacciavano “lo scontro frontale contro le forze che hanno occupato i terminali”. Sono state imprudenti le prese di posizioni dell’UE e dei cinque paesi occidentali che hanno “ordinato” il ritiro delle truppe del gen. Haftar dagli impianti petroliferi, definendoli milizie. Ad allarmare le parti libiche legate alla maggioranza del Parlamento, il concomitante annuncio dell’invio di truppe italiane a Misurata, nel quadro di un’azione umanitaria sanitaria, per la costruzione di un ospedale da campo, fornito di medici e personale paramedico oltre a unità di tecnici e militari per la protezione delle equipe sanitarie. Diversi deputati vi hanno letto una presa di posizione italiana a favore di una parte del conflitto interno. “Nessun aiuto umanitario è stato fornito dal governo italiano alle vittime di Bengasi, quando eravamo da soli a combattere il terrorismo jihadista, malgtrado le ripetute richieste avanzate dal Parlamento”, ha tuonato un deputato di Bengasi.

Alla fine sembra prevalso il buon senso e la consapevolezza che la Libia potrà rinascere come Stato soltanto se rimarrà unita e la ricchezza petrolifera rimarrà a disposzione di tutti i libici e non di una parte contro l’altra. Da qui il passo indietro del premier incaricato Sarraj, che ha calmato il nervosismo dell’invitato ONU Kobler con una dichiarazione saggia poco prima della riunione del Consiglio di Sicurezza, riunito d’emergenza per discutere della crisi libica.

Adesso nessuna delle due parti rivendica il monopolio della legittimità e si sta lavorando per una riunione, all’interno della Libia, tra le parti politiche libiche con l’obiettivo di unificare i due rami dell’esercito e concordare le linee guida per la riunificazione dell’ente petrolifero. Dopo la fase di emergenza si penserà alla formazione della nuova compagine governativa, che Sarraj dovrà sottoporre al voto del Parlamento.

Nella sua dichiarazione, il presidente del Noc ha indicato che le esportazioni potrebbero riprendere dopo l’unificazione delle due istituzioni, un processo che ha avuto inizio nel mese di luglio. Mustafa Sanalla ha affermato inoltre che si aspetta “l’inizio di una nuova fase di cooperazione e convivenza tra le forze politiche libiche”.

“Siamo in grado di aumentare la produzione a 600.000 barili al giorno in quattro settimane e a 950.000 entro la fine dell’anno, a fronte dei 290.000 attuali”, ha detto ancora il presidente del NOC.

Se l’elefante occidentale non entrerà nella cristalleria a fare danni, forse i libici si rinsaviranno e torneranno alla perduta unità, che si era rivelata vincente contro la dittatura, ma che poi si è persa a causa della voracità dei signori della guerra e degli emiri delle milizie islamiste, al servizio di potenze straniere, arabe ed internazionali.

  • Autore articolo
    Farid Adly
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