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Lago d’Iseo: la miniera, la frana e la paura dello tsunami

Lago Iseo

Rischio tsunami sul lago d’Iseo”. Sembra il titolo di un racconto distopico, invece è cronaca. Cronaca di un rischio annunciato, ma rimasto inascoltato. Una storia che affonda le sue radici in riva al lago, da almeno cinquant’anni. Dentro ci sono un bel po’ di temi che fanno a pugni gli uni con gli altri: sfruttamento delle risorse naturali, infrastrutture e sviluppo del territorio. Turismo, tutela dell’ambiente e salvaguardia dell’incolumità collettiva.

Siamo sulla sponda occidentale del Sebino. Il 23 febbraio scorso il cementificio Italsacci, stretto tra il Lago d’Iseo e i piedi del monte Saresano, lancia l’allarme. I sensori che da anni monitorano i movimenti franosi della roccia, scavata qui da oltre un secolo, registrano una brusca accelerazione, fino a 20-25 millimetri di spostamento al giorno. La massa di detriti supera il milione di metri cubi: ce n’è abbastanza per temere scenari terribili, in caso di peggioramento.

Le attività del cementificio vengono interrotte, i dipendenti mandati a casa. Sulla provinciale 78 si aprono delle crepe e la strada viene chiusa, così come la litoranea. Il piccolo Comune di Parzanica resta senza collegamenti, se non per una strada comunale resa carrabile in tempo record.

A Monte Isola, l’isola bresciana al centro del lago d’Iseo, trentacinque persone vengono evacuate dalle loro case nella frazione che si affaccia sul cementificio: nel caso la frana crollasse, si teme che lo spostamento d’aria e un’onda anomala possano danneggiare le abitazioni poste più in basso. Rientreranno solo dopo due settimane, una volta constatato un rallentamento della frana e pianificate le procedure in caso di emergenza.

Quando arriviamo a Tavernola, lo scenario peggiore è improbabile, ma non viene ancora escluso. Prima del paese, arrivando da Sarnico attraverso la Statale Sebina occidentale, un piazzale si sporge sul lago d’Iseo. Da qui si può ammirare il centro, l’antica torre Fenaroli, il porticciolo. Ma inevitabilmente lo sguardo finisce per essere respinto dalla vista dei blocchi del cementificio, enormi anche in lontananza. Sopra, il monte Saresano. Inciso, scavato, deturpato nell’area dell’ex miniera Ognoli. La frana che ha fatto scattare l’allarme si è allargata proprio lì.

«La zona della frana parte da sotto la strada fino ad arrivare dietro al cementificio, quella parte che è già residuo di una frana vecchia». A guidare lo sguardo a parole è Anna Sorosina. È sposata con il sindaco di Tavernola e da anni si dà da fare in prima persona per la tutela ambientale e paesaggistica del territorio. Per esperienza o per sentito dire del monte Saresano ricorda almeno tre frane prima di questa: nel 1970, nel 1986 e nel 2010.

Alla metà degli anni Ottanta, racconta, il cementificio pianifica il recupero del fronte della montagna scavato per quasi un secolo. La produzione però deve continuare e nonostante la nascita di un comitato di opposizione, viene aperta la nuova miniera Ca’ Bianca nel Comune di Parzanica. Sul piatto viene messa come moneta di scambio la realizzazione di una strada nuova per raggiungere più velocemente Parzanica e collegarla con la statale rivierasca.
L’impatto del cementificio sull’ambiente e sul paesaggio, quindi, non diminuisce, anzi. Ma gli appelli a riconsiderare la situazione cadono sempre nel vuoto.

«Se la montagna è instabile e nel 2010 la frana era più vicina a Tavernola, nell’86 era più di là, adesso è in mezzo…mi permetterei di dire facciamo una riflessione in generale e poi vediamo che cosa ne emerge – aggiunge Anna Sorosina – Spesso quando si è lontani e ti chiedono dove abiti, dici “abito a Tavernola sul lago d’Iseo”, rispondono “ah sì dove c’è il cementificio”. È la cosa più grande che si veda non solo a Tavernola, ma in mezzo lago perciò capisco che purtroppo veniamo ricordati per questo più che per altro. Peccato».

In paese, nessuno di coloro che incontriamo si dice allarmato. C’è chi confida nella tecnologia per tenere la situazione sotto controllo, chi esige che il problema trovi una soluzione, chi spera ancora in una convivenza che non cambi l’esistente. Se cinquant’anni fa il cementificio dava lavoro a 400 dipendenti, oggi sono una settantina.

In un bar, troviamo un operaio dell’Italsacci: «È la ditta dove lavoro io ad aver dato l’allarme. Dopo da lì sono arrivati gli altri strumenti per monitorare. Sono cose che si ripetono sempre. Poi rientra tutto, come sarà anche questa volta. Sono cinquant’anni che aspettiamo che venga giù. Io abito laggiù e dormo sonni molto tranquilli».

A suo avviso non passerà molto prima che le strade vengano riaperte al traffico. Il primo pensiero, evidentemente, va sempre ai collegamenti e alla possibilità di muoversi per le persone.

«Vuoi bloccare tutta la rivierasca ad aspettare che venga giù? La gente che deve andare al lavoro invece di fare quindici chilometri ne fa sessanta. Non è un disagio da poco eh».

I disagi maggiori li stanno affrontando gli abitanti di Parzanica. Uno sguardo sul paese, collegato con l’esterno solo grazie a una strada resa carrabile da pochi giorni, ce lo offre il signor Corrado. A Parzanica ha parenti e una casa che tiene come appoggio per quando va a caccia.

«I parzanichesi sono un po’ disperati. Io ho tutti i parenti su: mia moglie è nata là e mia nipote ha un negozio».

Corrado ha seguito in prima persona le vicende legate al cementificio. È stato tra i pochi a non vendere la sua proprietà nel periodo di costruzione della strada Tavernola-Parzanica. A modo suo, ci spiega la speculazione edilizia legata a quell’opera e i danni che la nuova miniera ha aggiunto all’attività estrattiva secolare.

«Avevano costruito tanto negli ultimi anni con l’accesso lì dalla miniera. Avevano fatto due villaggi addirittura lì sulla costa. Purtroppo non si rimedia più all’errore che hanno fatto: in cementificio in origine scavavano sotto, non hanno incominciato da sopra a scavare. E togliendole il piede la montagna è obbligata a cadere. Con la miniera nuova hanno incominciato a monte, su in cima. Però muovendo così con le mine la parte a 300 metri di altezza è venuta giù per forza».

Chi rischia di subire le conseguenze della frana del monte Saresano sono però anche gli abitanti di Monte Isola, nel bel mezzo del lago. Il modo più semplice per arrivare sul posto è il traghetto che da Sulzano, sulla sponda bresciana, permette di approdare alla frazione di Peschiera Maraglio in tre minuti.

All’attracco parliamo con Antonio Turla, che di Monte Isola è stato sindaco dal 1990 al 1999. Dice subito che l’allarme sembra essere meno grave di quanto si temesse, ma la vicenda del cementificio per lui andava già affrontata più di trent’anni fa.

«Ho avuto modo di discutere questa storia in maniera molto approfondita, partecipando anche ad assemblee a Tavernola e a Parzanica. Il Comune più schierato era quello di Parzanica perché il cementificio gli aveva promesso campi da tennis, la strada in mezzo alla cava. E noi invece sostenevamo, insieme ad alcuni ambientalisti e a buona fetta della popolazione, che bisognava ragionare sulla chiusura dello stabilimento. Siamo stati un po’ sconfitti in quella battaglia per chiedere un cambio di passo alle amministrazioni locali e del Sebino. Hanno sparato milioni di cariche per demolire la roccia, noi montisolani le sentivamo costantemente».

Sull’isola ci si muove quasi esclusivamente in scooter. L’alternativa è un pulmino che attraversa tutte le diverse frazioni. A Siviano si trova il municipio. La signora Daniela e suo marito hanno un’attività da fioraio lì, a pochi passi dal Comune. Mentre raccontano che dei cugini hanno dovuto lasciare le abitazioni nella zona del porto, entra proprio una di loro, la signora Noris. Una testimonianza diretta dei disagi provocati dall’evacuazione.

«Ci han chiamato all’appello lì in piazzetta e ci hanno detto che onde evitare che potesse succedere qualcosa di spiacevole dovevamo cercare di andare via al più presto perché poteva franare. Io sono andata in una cascina di mio padre che ha una casa più in su. Ora che sistemino le cose però, qualcuno il danno lo ha fatto. Lì bisognava intervenire anni fa. Non è una montagna sull’Appennino, ma una montagna sul lago con paesi tutti a riva, dunque con il rischio che se frana qualcosa qualcuno ci rimane sotto».

Pochi giorni fa gli evacuati hanno potuto tornare nelle loro case.

Che si guardi al prosieguo della vicenda dalla sponda bergamasca di Tavernola o da quella bresciana di Monte Isola, sembra certo che quelle richieste, ignorate per trentacinque anni, di ripensare un modello di sviluppo, ora non possano più restare inascoltate.

In gioco c’è la tutela di un ambiente fragile e già troppo martoriato. C’è la sicurezza di una popolazione che non può essere lasciata oltre in una condizione di rischio costante.

Di Luca Parena

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    Redazione
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