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La resistenza sociale di Ken Loach

Con una seconda Palma d’Oro in tasca, dieci anni dopo averla ricevuta con Il vento che accarezza l’erba e due anni dopo Jimmy’s Hall, con Io, Daniel Blake Ken Loach ci riporta in anni contemporanei, sempre nelle zone della Gran Bretagna amate da Ken Loach. Anni devastati dalla crisi, in cui lo stato sociale è andato in pezzi, la dignità umana non ha più valore e a precipitare negli abissi ci vuole un attimo.

Daniel è un uomo di 60 anni, ex artigiano e muratore, vedovo e malato di cuore, non può lavorare per infermità e fa domanda per l’indennità. Una domanda senza risposte, bloccata dalla rigidità della burocrazia e dall’ottusità degli impiegati. Daniel, il bravissimo Dave Johns, ci prova ogni giorno, passando ore al telefono in attesa di un operatore o perdendo tempo a rispondere a domande fuorvianti e scontrarsi con l’insensatezza di una situazione senza via d’uscita. E nella stessa situazione imperscrutabile si trova anche Rachel (Hayley Squires), ragazza madre con due bambini, senza lavoro e senza casa con cui Daniel crea un legame profondo di assistenza e solidarietà. “Il punto di partenza è l’attitudine deliberatamente crudele nel mantenere la gente in uno stato di povertà e l’inefficacia volontaria dell’amministrazione come arma politica”, spiega Ken Loach. Scritto ancora una volta con Paul Laverty, il film è stato scritto grazie ad una documentazione accurata, incontrando persone, incrociando dati e esperienze. La precisione della scrittura, la leggerezza dei dialoghi che nasconde un dramma sociale spaventoso, la capacità di far sparire la macchina da presa, la bravura degli attori, le scelte stilistiche e dei luoghi hanno reso il film realistico senza dover ricorrere al documentario.

Pochi mesi dopo il Festival di Cannes, Loach è stato ospite del Festival Internazionale del Film di Locarno, un’occasione per fare il punto su tutta la sua carriera cinematografica e professionale, grazie al documentario Versus: the life and films of Ken Loach di Louise Osmond (prodotto da Rebecca O’Brien), che ripercorre la sua passione artistica e sociale da quando era studente ad oggi, con momenti inediti di narrazione di sé. Ma anche un’occasione per confrontarsi sulle grandi tematiche attuali: dalla politica europea al terrorismo.

Un cinema che tiene sempre presente il fattore umano, sia nei contenuti che nella forma: “Quando giro una scena, la posizione della macchina da presa corrisponde al nostro occhio, il punto in cui viene posizionata deve coincidere con lo sguardo degli occhi, per riuscire a raccontare in modo umano. Bisogna cercare di essere nella stanza con le persone e le storie che riprendiamo”.

Per scrivere la sceneggiatura di I, Daniel Blake, insieme al fedele Paul Laverty, Loach ha viaggiato per tutto il Regno Unito, cominciando dall’antica zona delle Midlands, fino a Newcastle, il luogo in cui è ambientato il film, ex sede di cantieri navali e molto importante per le lotte operaie. “Noi siamo stati lì, ma non è difficile trovare gente che vive in povertà, la si trova in ogni città. Ovunque ci sono persone che fanno la fila alle mense dei poveri. La burocrazia che gestisce il welfare è kafkiana, è così come la racconto nel film. Chi governa è consapevole di tendere una trappola ai cittadini, soprattutto ai disabili o a chi soffre di più e i media non lo dicono”.

Le storie di Ken Loach, sempre immerse nella realtà, spiegano molto il suo pensiero politico. Un impegno che si è sviluppato alla fine della Seconda Guerra Mondiale. “Quando ero ragazzo l’idea che esistesse un bene comune era fondamentale, avevamo appreso questo dalla guerra, l’idea di un welfare per tutti. Poi c’è stato il disastro della Thatcher in cui ha prevalso il bene individuale e non è più stato possibile risalire la china. Ora è così, la politica non è più credibile perché non si occupa più del sociale. Vince l’egoismo. Anche l’organizzazione politica del Partito laburista è assurda, la burocrazia del partito lotta contro i membri del partito, chiede l’impossibile per partecipare attivamente”.

Prima del referendum di giugno sulla Brexit, Loach aveva sottoscritto un appello insieme a registi, scrittori, attori, artisti e opinionisti per votare contro l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa. Per motivi politici, culturali e con l’ambizione di creare un grande Continente unito, forte e solidale, che offrisse un futuro di scambio per i giovani. Spiega così, la disfatta dei questo voto: “Molti hanno votato per Brexit perché si sentono alienati. Prima o poi capiranno che è stato un errore, ma chi vive in provincia considera Londra come un pianeta diverso, che li trascura e che non sente la loro voce. Reagiscono incolpando l’immigrazione e votando a destra. I cittadini del Nord-Est dell’Inghilterra hanno votato così perché si sentono abbandonati e messi da parte. Il problema, che non è stato spiegato, è che Brexit non cambierà le cose in meglio perché riducendo le tasse per le grandi aziende ci saranno meno soldi per il sociale e per la classe operaia. Le cose peggioreranno a breve termine.”

Poche speranze quindi nella visione di Loach, la realtà è più forte e per il regista inglese sembrerebbe tutto perduto. Invece: “Dov’è la speranza? Penso che sia nella rabbia, in una rabbia costruttiva che potrebbe trasformarsi in un movimento. Per questo mi spiace essere uscito dall’Europa, mentre per trasformare le cose dovremmo allearci con le forze di sinistra di tutta Europa. Anche i giovani mi danno speranza, la maggior parte di loro ha votato contro Brexit.”

In questo incontro a Locarno, che lo stesso Ken Loach ha definito “tipo guru”, non poteva mancare un commento sulla situazione internazionale, sugli atti terroristici dell’Isis e le reazioni globali. “Oh, God! Se guardiamo la Storia, l’Occidente ha controllato e deciso da secoli i destini dei popoli del Medio Oriente (un termine che considero imperialistico, perché dipende da dove ti trovi). Ora, l’espressione della rabbia diventa aberrazione e orrore, ma conoscendo la Storia non c’è da stupirsi che la rabbia assuma forme orribili. Siamo noi che abbiamo tracciato i confini e le linee sulle mappe. Non possiamo dimenticarlo e dovremmo essere un po’ più umili quando giudichiamo questi atti terribili e scioccanti”.

  • Autore articolo
    Barbara Sorrentini
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    Il grande flop delle case della salute. Solo il 5% è pienamente funzionante. La denuncia del Pd lombardo

    Dovevano essere i presidi con cui ricostruire la sanità sul territorio in Lombardia, ma finora le case di comunità sono state un flop. 216 sono quelle previste entro la scadenza dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza che arriverà a giugno 2026. Al momento 140 hanno aperto, ma solo otto in tutta la regione (sei in provincia di Bergamo e due nel varesotto) hanno tutti i requisiti obbligatori previsti dalla legge. In totale sono meno del 6 percento. La denuncia è del gruppo consiliare del Partito democratico lombardo che ha fatto un accesso agli atti alla direzione generale Welfare per ognuna delle case di comunità attive in Lombardia. L’assessorato ha replicato che i numeri diffusi “sono usati in modo difforme dalla realtà. Le rilevazioni mostrano percentuali elevate di attuazione per la maggior parte dei servizi obbligatori”. Per il capogruppo del Pd al Pirellone, Pierfrancesco Majorino, “Regione Lombardia è in colpevole ritardo”.

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