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La fame ai tempi della globalizzazione

La fame ai tempi della globalizzazione

Non basta dire fame, ci sono molti modi per soffrirla. Spesso la fame non è dovuta solo alla carenza di cibo, ma anche alla scarsa qualità di ciò che si mangia. Secondo la FAO delle Nazioni Unite, nel 2023 tra 720 e 750 milioni di persone hanno vissuto in condizioni di denutrizione. Il COVID-19 è stato un drammatico acceleratore: le persone a rischio fame nel mondo sono cresciute di oltre 150 milioni rispetto al periodo pre-pandemia. 750 milioni di persone sono circa il 9% dell’umanità, cioè un essere umano su 11, ma se si considera solo l’Africa, questo dato diventa una persona su 5.

La mappa di chi soffre la fame, infatti, riflette il quadro sociale generale delle diverse aree geografiche. Sono il 20% in Africa, l’8% in Asia, il 7% in Oceania e il 6% in America Latina. Tante, troppe persone per un mondo che non ha mancanza di terra da coltivare, ma che sta progressivamente erodendo la superficie agricola utile a sfamare l’umanità, destinando terreni fertili alla produzione di biocombustibili o di primizie per i mercati ricchi.

A questo si aggiunge il cambiamento climatico, che colpisce in modo particolare i piccoli e piccolissimi agricoltori, privi delle risorse necessarie per fronteggiarne le conseguenze. Un’altra concausa dell’aumento della fame sono i conflitti, da quelli di vasta portata e sotto i riflettori, come la guerra russo-ucraina, che ha fatto diminuire la fornitura di cereali all’Africa, a quelli meno noti, che incidono su popolazioni che vivono di agricoltura e sussistenza e che, dovendosi spostare dalle loro terre, si trovano costrette a comprare cibo senza avere le possibilità economiche.

Sono infatti le popolazioni rurali e le donne, in particolare, i soggetti più presenti nella mappa della fame. Più in generale, la FAO calcola che nei paesi a basso reddito circa il 70% della popolazione non può permettersi un’alimentazione sana. La cattiva alimentazione sta causando una vera e propria epidemia di obesità tra i più poveri, con un aumento esponenziale delle malattie cardiache, respiratorie e del diabete. Statisticamente, muoiono più persone per via del cibo spazzatura che per la mancanza di cibo.

L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite ipotizzava la fine della fame e della malnutrizione entro il 2030. A sei anni dalla data prefissata, è evidente che questo obiettivo è entrato a far parte del libro dei sogni della comunità internazionale, che indica date e scadenze per risolvere problemi gravissimi senza spiegare concretamente come raggiungere il traguardo e, soprattutto, senza fare nulla di concreto perché ciò possa accadere.

I punti centrali in un’agenda credibile, ma ancora non scritta, sarebbero il sostegno all’agricoltura di sussistenza e il controllo dell’espansione delle monoculture, del land grabbing e dell’industria delle primizie. Infatti, a differenza del passato, quando le carestie erano causate quasi esclusivamente dall’impossibilità di produrre cibo per fenomeni climatici avversi o guerre, oggi la fame è dovuta in gran parte alla distribuzione squilibrata del cibo, all’evoluzione del sistema agricolo e alle mode alimentari, in poche parole al grande mercato globale del cibo e della terra.

Il cibo come bene comune non esiste più, se mai è esistito e la sicurezza alimentare è una variabile che sottostà alla domanda del mercato. La fame odierna non è più la mera mancanza di cibo, bensì la cartina di tornasole di un mondo nel quale i leader politici parlano sì di lotta alla povertà, ma quando si arriva al dunque, il divario tra chi può permettersi di mangiare, magari in modo sano, e chi no resta incolmabile.

  • Autore articolo
    Alfredo Somoza
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