Approfondimenti

“La capitale” di Robert Menasse

Recensione La capitale di Robert Menasse

Robert Menasse
La capitale
Traduzione di Marina Pagliano e Valentina Tortelli
Sellerio Editore
445 pagine

Strepitoso ritratto della burocrazia europea, leggero per ironia, amaro per ciò che se ne può trarre. La capitale, che dà il titolo al romanzo, è Bruxelles, sede del potere europeo, un posto in mezzo a una moltitudine di mondi, i vari paesi della UE, con i loro funzionari (non eletti) che nel groviglio di cariche e incarichi, commissioni e sedi di lavoro, compongono un puzzle che si rivelerà mostruoso. Spina dorsale, la gerarchia. Motore, la feroce determinazione a salire qualche gradino più in alto dei colleghi. Gli eurocrati provengono dalle università più prestigiose: uomini super snelli, abiti poco appariscenti, asceti sotto ogni punto di vista: capaci di negoziare per ore e ore e nottate intere. Non sembrano aver bisogno di mangiare e di dormire, se la cavano con poche parole e qualche gesto… si accontentano del metabolismo all’interno del potere.

Robert Menasse, 64 anni, scrittore austriaco di lungo corso che da anni si occupa della questione europea, mette al centro di questo suo lavoro (Deutscher Buchpreis lo scorso anno) ciò che oggi scuote l’UE, costretta nel braccio di ferro tra la necessità di un rafforzamento degli organismi transnazionali, e ciò che vi si oppone. A opporsi, le politiche nazionaliste che riguardano tutti gli stati membri, occultate quanto ai paesi guida (anche se a volte plateali, come l’intervento militare dei francesi in Libia per contendere gli interessi italiani in campo petrolifero), più grezze quelle agitate da certi populismi.

Tramite i mass media il quadro politico di fondo è più o meno a conoscenza di tutti. Di diverso, qui, la capacità di penetrare nelle sue pieghe costruendo un universo polifonico di tremenda vivezza e autenticità. Cosa alla portata della narrativa più che della scrittura saggistica (nella quale l’autore si è comunque cimentato con importanti risultati). Un conto è delineare un problema sociopolitico, un altro mettere in scena una ventina di personaggi con il loro corredo di umanità, aspirazioni, frustrazioni, destini, che si muovono nel gioco perverso del potere: chi dal suo piano inclinato impegnato per non scomparire, chi armeggia per restare a galla, rari i vincitori. E chi ce la fa ottiene la vittoria a caro prezzo: vendendosi. Così un’ambiziosa funzionaria greco-cipriota che alla fine si ritrova a un bivio: scegliere se abbandonare o meno la parte migliore di sé, di quando ragazza credeva in un’identità libera, lontana dalle pressioni di ogni bandiera nazionale.

Qualche idealista circola ancora, sebbene con l’aria del sopravvissuto. Istanze queste, espressione più del passato storico che del presente. Per quello scambio tra passato e futuro, un futuro deprecato perché minaccioso, inaffidabile e forse ingestibile, e un passato in cui le speranze non erano ancora screditate (Zygmunt Bauman). Basti pensare ai timori legati alle prossime elezioni europee del 2019.

Una UE apparentemente patinata e dai modi eleganti dunque, protesa invece a nascondere la propria ferocia, quella studiata da Menasse per più di un decennio. Un anno anche in veste di osservatore ospite della Commissione europea. Non ci sono dubbi su cosa pensi lo scrittore dei risorgenti nazionalismi con il loro carico di razzismi, aggressioni, terrorismo, guerre. È questo il cuore del libro. Anche se di fronte al cinismo degli eurocrati, ai loro conformismi, ingordigie, carrierismi, freddezze nel far fuori i colleghi, che lui così ben interpreta, Menasse di fa profeta del futuro problematico di questo organismo transnazionale. Senza dover chiamare in causa la reazione dei milioni di cittadini che a causa del Fiscal Austerity è caduto nel fossato che si è aperto tra redditi alti e redditi bassi, ulteriormente incrementato dalle politiche europee dopo la crisi del 2008. Così i finali delle singole vicende dei personaggi che abbiamo seguito non fanno presagire alcuna luce in fondo al tunnel.

L’inizio è travolgente, di un sarcasmo che strappa spesso la risata. Ritmi da romanzo d’azione: un cadavere in una stanza d’albergo, vittima sbagliata per uno scambio di persona, cosa che porta il killer a una fuga che gli salvi la pelle, inseguito com’è sia dalla polizia che dai suoi stessi mandanti. Ma il commissario belga che lo dovrebbe arrestare si vede togliere il caso. Ordini dall’alto, mentre dal suo computer sparisce ogni dato al riguardo. Di più, quel cadavere non deve essere mai esistito. E non è la prima volta che succede a quanto pare: la stampa non ne saprà mai nulla. Ingredienti che sembrano prefigurare un giallo, impegnato in conclusione a tirare tutti i fili dell’intreccio. Così non è, poiché l’oggetto del libro non è un delitto, per quanto paradigmatico e con il suo corredo di indizi, depistaggi, fughe, bensì ancora una volta la macchina burocratica compenetrata dai misteriosi quanto inquietanti interessi politici degli stati. Compreso il Vaticano: nessun servizio segreto del mondo ha le risorse, né finanziarie né umane, per mettere in piedi una rete di agenti che si estenda in tutto il pianeta, la globalizzazione in confronto è niente… chi ha un agente in ogni buco di paese? Il Vaticano. Non a caso il killer viene dalla Polonia ed è lì che torna, per nascondersi da un amico prelato, pure lui parte dell’imperscrutabile disegno. Come in Un requiem per il romanzo giallo, La promessa di Duerrenmatt, anche qui sarà il caso a chiudere la partita.

Intanto, un’altra vicenda corre parallela a quella: la Commissione Cultura, cenerentola tra tutte, snobbata e vilipesa perché priva di risorse economiche, cerca disperatamente il proprio rilancio. E la chance può essere offerta dalla celebrazione dei 50 anni dalla nascita della Commissione europea, prevista nel 2020. Ci vuole dunque un’idea vincente. Uno dei suoi funzionari – il più pulito, assieme a un vecchio economista – appena rientrato da una visita al lager, propone un Jubilee Project ad Auschwitz. Il luogo della memoria per eccellenza. Dove è avvenuto il peggio e da dove proprio con la nascita della UE era scaturito il proposito di mai più guerre e nazionalismi.

La donna greco-cipriota si impadronisce della pensata del suo sottoposto, se ne vuole servire per scappare dal buco della Cultura che le blocca la carriera. Via via tutta la filiera del comando europeo fino al suo grado più alto, si mostra entusiasta. Formalmente. Subito dopo il tarlo della burocrazia comincia il su lavoro, una firma, una telefonata, in fondo niente più che uno schiocco di dita. E fu colpita una sfera che ne colpì subito un’altra. Il progetto viene massacrato. A partire dai polacchi: non gradiscono che il nome del loro paese venga associato al famigerato lager impiantato in quel territorio. Dimenticare è l’urgenza. E a ostacolare l’impresa ci si mettono pure gli italiani con una controproposta risibile, gli inglesi che hanno una sola regola vincolante: essere fondamentalmente un’eccezione, i tedeschi… ciascun membro con proprie caratteristiche gergali, di stile, abbigliamento, gestualità, rese con il più caustico umorismo.

Vero tocco da maestro quando Menasse fa comparire un maiale che vagabonda per le strade di Bruxelles. Figura irreale che compare, scompare, poi torna, su cui si getta a capofitto il giornale locale con un invito ai lettori: date un nome al maialino. Animale che non sparisce dalle pagine successive del libro per motivi ben meno comici: il mercato cinese abbisogna di quantità gigantesche di carne di maiale, compreso un numero stratosferico di orecchie, prelibate per loro, scarti nella nostra cucina, che possono essere vendute al prezzo del filetto. Ma non sarà l’Unione Europea a trattare con la Cina come sarebbe giusto, al contrario, finanzia addirittura la soppressione dei suini nei propri paesi, con sovvenzioni ai produttori purché chiudano parte dei loro allevamenti. Risultato, mentre continua la politica autolesionista della UE, la Germania batte tutti e stipula in materia un accordo bilaterale con Pechino. Campione dell’esportazione come al solito la Germania, che con il suo abnorme surplus commerciale – in continuo aumento sia verso i paesi esteri che verso quelli della UE – si fa beffe dei limiti imposti da Bruxelles. I molteplici viaggi a Pechino di Frau Merkel (otto in un solo anno) hanno reso anche in quel campo i loro frutti.

Nei vialetti del grande cimitero della capitale, tra tombe, monumenti, croci dei caduti, passeggiano, si danno appuntamento, sostano sulle panchine, alcune delle nostre conoscenze: il commissario, un vecchio ebreo la cui famiglia è finita nei forni di Auschwitz, un economista invitato a Bruxelles per il Reflection Group “New Pact for Europe”, un’assise destinata a produrre parole al vento che finiscono nel mantra abituale: “bisogna creare più crescita”. Uno degli innumerevoli think thank dove questa volta il professore sceglie di venir meno all’ipocrisia di tutti con una provocazione che ha il sapore del testamento. E lo fa, davanti a colleghi cattedratici e ad esperti di varie nazionalità, che lui ha catalogato in vanesi, idealisti, e lobbisti. Vanesio chi ci va per lustrarsi le piume, idealista chi è sempre pronto ad accettare il male minore, lobbista, sia mai detto in rappresentanza diretta dei grandi gruppi industriali, bensì delle fondazioni di quei gruppi!

Episodio emotivo di rara efficacia quello di un ragazzo ebreo che scampa alla morte saltando giù dal vagone del treno pieno di prigionieri, bloccato dall’assalto di un gruppo della resistenza, che gli fornisce un nome e un indirizzo – la salvezza – mentre la madre lo supplica di risalire su con loro, di restare uniti, ignara di ciò che spetta a lei, al marito, alla figlia una volte arrivati a destinazione. E di grande sensibilità la scena erotica, protagonisti il vecchio economista e la moglie anziana, quando lui ne osserva ogni venuzza blu o rossa, ogni cuscinetto adiposo, come una carta geografica su cui era stato tracciato un lungo cammino da percorrere insieme. E di colpo al culmine dell’eccitazione la sentì: la fusione delle anime che si toccano.

Rapporto amoroso speculare a quello che lega la coppia di rampanti, dove il sesso fa da trampolino per lei e da sfogo per lui, in cui durante l’amplesso capita che l’uomo finga di raggiungere il piacere e la donna con i suoi falsi mugolii, idem. Pur di far fuori in fretta la faccenda, al pensiero di doversi alzare presto al mattino pronti alla tenzone quotidiana. Attori di un’Europa bloccata, inerte, svuotata di quella visione utopica che possa sconfiggere i nazionalismi e i para-fascismi insorgenti. Dato che ciascun paese, anche colonna economica della UE, è intento a difendere in primo luogo i propri interessi.

Recensione La capitale di Robert Menasse
Foto © Servusbonjourtschuess [CC BY-SA 4.0] Wikimedia Commons
  • Autore articolo
    Bruna Miorelli
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    Ho detto R1PUD1A di Claudio Jampaglia e Giuseppe Mazza per EMERGENCY “Ho detto R1PUD1A” è un podcast sul riarmo e la propaganda di guerra in Europa di Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia, realizzato negli studi di Radio Popolare per EMERGENCY. Nei 5 episodi vi racconteremo le ragioni della campagna R1PUD1A di EMERGENCY www.ripudia.it attraverso un’analisi dei meccanismi per cui in questi anni siamo arrivati al “non c’è alternativa” al riarmo, dei protagonisti, delle campagne e dei linguaggi, con molti ricorsi storici, qualche sguardo alle alternative e con la partecipazione di alcuni dei protagonisti dell’associazione che da 30 anni cerca di curare e prevenire le ferite provocate dai conflitti armati. Primo episodio: Le parole sono importanti. In questa prima puntata di “Ho detto R1PUD1A” Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia spiegano cosa significa la parola “ripudia” nella Costituzione italiana e perché è stata scelta per rappresentare il “mai più” alla guerra del popolo italiano dopo la Liberazione. Non siamo i soli ad avere fissato questo principio nelle nostre leggi. La guerra però sta tornando una prospettiva concreta, almeno secondo la maggior parte dei governi, che si riarmano, Italia compresa. Con Rossella Miccio, presidente di EMERGENCY, vi racconteremo poi l’esempio del Sudan, il Paese dove la guerra ha già causato in questi due anni oltre tre milioni di profughi. Partecipa alla campagna R1PUD1A su www.ripudia.it

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    C'è Di Buono: Max Casacci racconta Eartphonia III: Through the grapevine

    Anche in questa puntata parliamo di qualcosa che ha a che fare con la cultura enogastronomica, ma anche, molto, con la musica. Per la prima volta il caro Max Casacci (già colonna dei Subsonica) è stato ospite di un nostro programma non prettamente musicale, per raccontare il terzo episodio del suo progetto "Eartphonia", che lo ha portato in Franciacorta per "Through the grapevine", realizzato con i suoni del vino; suoni e rumori catturati nelle cantine dell'azienda vitivinicola Bersi Serlini Franciacorta. A cura di Niccolò Vecchia

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