
Difficile fare una stima precisa, ma milioni di persone hanno dimostrato in centinaia di città americane nel No Kings Day, la giornata di protesta contro le politiche di Donald Trump. Sono state manifestazioni pacifiche e gioiose, nonostante l’allarme e la paura seminati dai repubblicani.
Un “comizio di odio contro l’America”, ha definito il No Kings Day Mike Johnson, speaker della Camera. Aggiungendo: “Sarà un raduno di marxisti, socialisti, militanti antifa, di anarchici e l’ala pro-Hamas del partito democratico di estrema sinistra”. Non è andata così. Le manifestazioni sono state un successo, portando per le strade d’America molte più persone rispetto al giugno scorso, per un’occasione simile. Proprio perché il No Kings Day è stato, da un punto di vista di partecipazione popolare, un successo, vale la pena di interrogarsi sugli effetti politici che può avere, e qui le cose si fanno più opache.
Il No Kings Day, lo dice la definizione stessa, è stata una mobilitazione contro il re, quindi contro Trump. Questo carattere di opposizione a Trump è presente in molta politica democratica di questi mesi. Qualche esempio: il 4 novembre si terranno negli Stati Uniti una serie di elezioni, per sindaci, governatori e altre cariche pubbliche. In Nel New Jersey, dove si vota per il governatore, uno spot dem accusa il candidato repubblicano, Jack Ciattarelli, di voler essere “il Trump di Trenton”. Anche in Virginia si vota per la carica di governatore: qui, Abigail Spanberger, la candidata democratica, ha speso milioni di dollari per dipingere la sua rivale repubblicana, Winsome Earle-Sears, come accolita del presidente Trump e sostenitore delle sue politiche. “Sears parla per Trump”, avverte il narratore in un recente spot elettorale.
Ci sono una serie di sfide anche in California, e anche in California ci sono tanti spot contro Trump, accusato di voler ridisegnare i distretti elettorali per vincere più seggi alla camera. A un anno dalle presidenziali 2024, il tema centrale della politica democratica resta lo stesso: la democrazia americana messa in pericolo da Trump e l’evoluzione autoritaria da lui innescata. Si può ovviamente essere d’accordo con l’analisi, ma la questione è un’altra: la strategia anti-Trump non ha funzionato alle presidenziali 2024 e rischia di non funzionare oggi. C’è un dato interessante a questo proposito: a guardare i sondaggi, le cose non sono molto cambiate per Trump da quando è rientrato alla Casa Bianca. Resta un presidente piuttosto impopolare, con un gradimento intorno al 42 per cento, ma non ci sono stati particolari smottamenti, in questi nove mesi di presidenza e non c’è stato di sicuro un crollo.
La cosa merita probabilmente una riflessione, nel partito e più in generale nei movimenti progressisti. Sicuramente, a livello locale, soprattutto negli Stati delle coste est e ovest, l’accusa di autoritarismo per Trump può funzionare, portando a una vittoria dei candidati progressisti. È appunto più dubbio che levare la minaccia Trump possa davvero servire per mettere insieme una maggioranza nazionale, tale appunto da ridare ai democratici il controllo della Camera al prossimo midterm, novembre 2026. Per raggiungere l’obiettivo, il partito democratico deve probabilmente rafforzare il suo messaggio sociale, parlare più di costo della vita, sanità, scuola, welfare.
Da questo punto di vista, l’attuale shutdown appare un’occasione importante. I democratici non voteranno il rifinanziamento del governo federale, se i repubblicani non danno il via libera al rinnovo dei sussidi per l’Obamacare, in scadenza a fine anno: far passare il messaggio di difesa della sanità potrebbe essere un passo importante per rendere più efficace la strategia democratica.