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Il nuovo streaming sembra sempre più la vecchia tv

Il nuovo streaming sembra sempre più la vecchia tv

Da un paio di settimane, gli abbonati al servizio streaming di Amazon, accedendo a Prime Video – magari per vedere l’attesa serie Fallout, di cui abbiamo parlato la settimana scorsa – si sono trovati davanti un annuncio: d’ora in poi, all’interno di serie e film, sono previsti degli spazi pubblicitari (circa tre blocchi con tre spot nel corso di ogni ora); chi volesse continuare come prima a fruire dei contenuti senza interruzioni, deve pagare 1 euro e 99 al mese in più, oltre all’abbonamento annuale (che, al momento, costa 49,90 euro).

In questi stessi giorni, il CEO di Disney, Bob Iger, annuncia che da giugno anche agli abbonati a Disney+ comincerà a essere impedita la condivisione degli account fuori dal nucleo domestico, un provvedimento che Netflix ha adottato circa un anno fa, riuscendo così a riguadagnare milioni di sottoscrizioni che aveva perso precedentemente. La stessa Netflix, sempre in questi giorni, comunica ai suoi investitori che d’ora in poi smetterà di rendere pubblico il numero dei suoi abbonati nel mondo, cosa che prima faceva ogni trimestre: non è più un dato rilevante per valutare il successo dell’azienda, dicono i vertici. Intanto, Disney+ annuncia l’introduzione, a breve, di una nuova opzione sulla sua piattaforma: i canali tematici! Gli abbonati, invece di scegliere il singolo titolo da guardare, potranno accendere un canale – per esempio quello dedicato a Star Wars, alla Marvel, ai film Pixar – e vedere quello che viene trasmesso in quel momento.

Suona familiare? Blocchi pubblicitari, restrizioni all’accesso, palinsesti e programmazioni precostituite, profili premium ad abbonamenti sempre più alti… la cosiddetta “rivoluzione dello streaming” assomiglia sempre di più a qualcosa che conosciamo bene, e da molti decenni, e cioè alla vecchia televisione. Era il 2013, 11 anni fa, quando su Netflix debuttava la sua prima serie originale, House of Cards (a proposito: in Italia è stata per anni un’esclusiva Sky, poi è sparita per molto tempo, adesso potete rivederla proprio su Netflix), e la promessa era ben diversa. Il catalogo della piattaforma dalla grande N rossa appariva sconfinato, il costo dell’abbonamento era esiguo (circa 10 dollari al mese) e la condivisione dell’account con amici e colleghi era addirittura incentivata (circola molto online lo screenshot di un vecchio tweet dell’account ufficiale Netflix che recita “love is sharing your password”, “l’amore è condividere la tua password”); serie che venivano cancellate per i bassi ascolti dai network tradizionali o titoli cult terminati da tempo trovavano una nuova casa su Netflix, disposta a produrre nuove stagioni, così come a investire su autori più o meno consolidati con budget elevatissimi (ricordate alcune serie decisamente sperimentali, come Sense8 o The OA?).

Anche Prime Video, nei suoi primi anni di produzioni originali, si concentrava su titoli che potessero attirare soprattutto il plauso della critica (come la rivoluzionaria Transparent o la travolgente The Marvelous Mrs. Maisel). Un decennio dopo il panorama è cambiato, e il sistema è in crisi, come ha dimostrato anche il lungo sciopero di sceneggiatori e attori dello scorso anno. Tutti quanti hanno voluto partecipare alla “gara dello streaming”, che fossero conglomerate dell’intrattenimento come Disney, Paramount e Warner Bros., o colossi tecnologici come Apple: i cataloghi di ogni servizio si sono rimpiccioliti, i costi degli abbonamenti sono aumentati. Ora si è arrivati probabilmente alla massima espansione, o quasi: chi aveva la possibilità o la voglia di sottoscrivere un abbonamento streaming l’ha fatto, la crescita non può essere infinita. E per mantenere il ritmo produttivo altissimo cui Netflix per prima ci ha abituato – decine di nuove serie e film a settimana – i soli introiti delle sottoscrizioni non bastano più: bisogna introdurre la pubblicità, massimizzare gli abbonamenti, ma anche tagliare i costi, pagare meno gli artisti e le maestranze, far calare la qualità, affidarsi all’algoritmo, sfrondare il marketing, cancellare tutto ciò che non è un immediato successo, convincere gli spettatori a continuare a guardare, un episodio dopo l’altro, anche proponendo palinsesti già fatti.

Nel frattempo, la televisione tradizionale si è spostata sempre di più sullo sport e sui reality (qualcosa che comunque anche le piattaforme stanno iniziando a ospitare in forze), canali gloriosi come HBO vengono smantellati, e sempre più spesso si sente dire che “le serie tv non sono più belle come una volta”. Il sospetto è che il cerchio si sia chiuso: siamo tornati alla vecchia tv, nel frattempo depotenziando il suo linguaggio più immaginifico, appassionante e creativo, quello della narrazione seriale. Speriamo di sbagliarci.

  • Autore articolo
    Alice Cucchetti
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    Teatro. La rivoluzione delle "piscinine" milanesi vista da due piccioni in crisi esistenziale Al Teatro della Cooperativa, a Milano ha debuttato in prima nazionale "Lo sciopero delle bambine", in scena Rita Pelusio e Rossana Mola di PEM Habitat Teatrali, compagnia che porta avanti una ricerca artista che declina contenuti civili e ironia. Lo spettacolo, con la regia di Enrico Messina, racconta una storia avvenuta a Milano nel 1902, quando le “piscinine”, che in dialetto meneghino significa “piccoline”, bambine, tra i sei e i tredici anni, che lavoravano senza diritti, sfruttate e sottopagate, ebbero la forza di scioperare e, per cinque giorni, fermare l’industria della moda della città. A raccontare la vicenda delle piscinine in scena sono due piccioni, due creature che abitano le piazze, le cui parole rispecchiano lo sguardo dei contemporanei, spesso stanchi e disillusi davanti alle sfide della storia. Nella trasmissione Cult Ira Rubini ha intervistato l’attrice Rita Pelusio.

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