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Il mio amico Piero

Ho atteso che il dolore si estendesse in modo uniforme sul corpo onde attutire il trauma violento, una amputazione in corpore vivo, per la morte di Piero Scaramucci, militante di Lotta Continua, quindi fondatore di Radio Popolare e per molti anni suo direttore. Giornalista da sempre. Un professionista straordinario dell’informazione e della controinformazione, e ne aveva la vocazione.

Lo conobbi prima della nascita della Radio, come ci si conosce e incontra militando nella stessa organizzazione ma amici diventammo dopo, quando lui tornò a Radio Popolare. Credo che per lui esserne il direttore, e dopo una voce portante nella cooperativa fino a diventarne presidente, fosse una chiamata destinale, senza scampo anche quando ne aveva le palle piene e certe assemblee gli parevano insopportabili. Mi sono chiesto perché oltre alla tristezza e al dolore grandi miei e di moltissime altre persone, io mi sia sentito percosso e spezzato dalla sua scomparsa.

La risposta forse sta nella sua intelligenza critica molto precisa. Una qualità che è tipica, e necessaria, anche nel mio mestiere di fisico teorico, e che non è comune nelle redazioni dei media, giornali, radio, televisioni dove al meglio prevale l’informazione, al peggio la retorica sensazionalistica. Questa precisione dell’intelligenza critica si trasformava poi nella prassi linguistica del fare radio, da lui definita una volta: una radio di classe. Una definizione che non chiudeva, come spesso accade alle definizioni che appunto stabiliscono confini, ma apriva un mondo. Anche questa cosa tipica della fisica teorica, dove tu definisci un oggetto non per rinchiuderlo in una comprensione data una volta per tutte, ma per farne un propulsore verso un nuovo universo e un generatore di nuove domande, dubbi, campi di ricerca. Credo che questa attenzione alla precisione linguistica creativa fosse una sorta di affinità che sentivo con lui, e che vidi una volta dispiegata in tutta la sua ricchezza, quando con Piero e Giorgio Galli andammo in carcere a Pisa per una lunga conversazione trasmessa in diretta con Adriano Sofri, al tempo detenuto con l’accusa di omicidio del commissario Calabresi.

Giorgio Galli era colpevolista, epperò nel dialogo la carcerazione di Sofri emerse anche per Galli come storta, ingiusta, quasi che una nuova comune pietas fosse nata in quella sala del carcere di Pisa. Col che noi poi uscimmo liberi, e Adriano rientrò in cella.

Piero sapeva che “ i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” e la radio era un luogo e un mezzo per allargarli quei limiti con la parola, comunicata si badi bene non in una ristretta cerchia di dotti ma nell’etere, a disposizione di tutti. Parola che andava e veniva dai microfoni agli ascoltatori, e viceversa, Chiamerei questa attitudine di Piero, copiando Gramsci e Wittgenstein, una praxis linguistica rivoluzionaria che produce oggetti i quali che senza di lei non sarebbero dati. Che poi è il cuore, l’anima, il cervello di Radio Popolare. L’invenzione di cui Piero è stato in gran parte costituente.

C’è una seconda intelligenza di Piero che mi mancherà assai, l’intelligenza emotiva cui io sono invece completamente estraneo, di rapporti e emozioni degli umani non capendo più o meno niente. Piero aveva una sensibilità quasi tattile per l’intimità cogli altri. Non solo quelli che conosceva bene, ma anche persone incontrate lì per lì, cui diceva le cose giuste quasi sempre con tenerezza, mai sdolcinata. E neppure ipocrita.Non manifestava alcuna rozzezza maschil maschilista, e si muoveva da maestro tra le sfumature, pur anche quando parlava che ne so, della sua esperienza nei Quaderni Rossi. Non ci si vedeva per mesi, e quando accadeva lui riprendeva da dove ci eravamo lasciati far conto di niente, quasi che il tuo discorso fosse stato per lui importantissimo, mentre io me ne ricordavo niente o poco. Con la vicinanza che ti faceva sentire quando stavi in cattive acque, o dentro grandi sofferenze.

Infine. Infine la sua rettitudine che è qualcosa in più dell’onestà. Proprio uno star dritti, eretti. Senza essere ingenuo. Anzi anche pronto allo sgambetto, ma guardandoti negli occhi. E tu, che pur avevi ragione, ti sentivi sempre in dubbio, che magari avessi torto. Un torto che vedeva solo lui, ma spesso avrei voluto abbracciarlo. E ora invece non c’è più e questo mi fa piangere.

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    Teatro. La rivoluzione delle "piscinine" milanesi vista da due piccioni in crisi esistenziale Al Teatro della Cooperativa, a Milano ha debuttato in prima nazionale "Lo sciopero delle bambine", in scena Rita Pelusio e Rossana Mola di PEM Habitat Teatrali, compagnia che porta avanti una ricerca artista che declina contenuti civili e ironia. Lo spettacolo, con la regia di Enrico Messina, racconta una storia avvenuta a Milano nel 1902, quando le “piscinine”, che in dialetto meneghino significa “piccoline”, bambine, tra i sei e i tredici anni, che lavoravano senza diritti, sfruttate e sottopagate, ebbero la forza di scioperare e, per cinque giorni, fermare l’industria della moda della città. A raccontare la vicenda delle piscinine in scena sono due piccioni, due creature che abitano le piazze, le cui parole rispecchiano lo sguardo dei contemporanei, spesso stanchi e disillusi davanti alle sfide della storia. Nella trasmissione Cult Ira Rubini ha intervistato l’attrice Rita Pelusio.

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